di Giovanni Canitano e Paolo Peruzzi

Pubblicato in: .NET, n. 61/2018, Confservizi Cispel Toscana, Firenze.

Abstract:

Il Servizio Idrico Integrato (SII) in Italia ha sperimentato, nell’ultimo quarto di secolo, un processo di profonda trasformazione, che ha interessato buona parte del paese. Nell’arco di tempo dall’emanazione della legge 36/94, conosciuta come “Legge Galli”, e dall’avvio del processo di riorganizzazione dei servizi idrici, sono intervenuti numerosi cambiamenti nella regolazione economica del settore. L’attività di vigilanza sul settore è passata da organismi definiti nell’ambito di ministeri ad un’Autorità amministrativa nazionale indipendente (l’allora AEEG, ora ARERA). Uno dei cambiamenti regolatori più importati è stato quello della metodologia tariffaria, che ovviamente ha profonde ripercussioni sui risultati economici e patrimoniali raggiunti dalle imprese regolate. In questi anni si è passati da una regolamentazione prevista da un decreto del Ministero dei lavori pubblici, il Metodo Normalizzato, che ha dettato le norme sulla tariffazione del servizio idrico integrato dal 1996 al 2011, all’attuale regolamentazione tariffaria definita dall’ARERA.

Ciò che ci si propone con questa ricerca è un’analisi dei cambiamenti che sono intervenuti nella regolazione economica del servizio idrico, leggendoli alla luce degli effetti che questi cambiamenti hanno avuto sui bilanci di un gruppo di cinquanta società di gestione. In particolare, la ricerca fornisce l’analisi di un campione di gestori nel arco di un periodo di dieci anni, valutando gli effetti che le politiche di regolazione tariffaria possono aver avuto sulle prestazioni economiche e finanziarie dei gestori. Quello che sembra emergere è un quadro incoraggiante. La nuova metodologia tariffaria ha spinto verso la crescita degli investimenti senza che il settore abbia peggiorato la propria struttura finanziaria, proprio grazie ai rendimenti che sono stati capitalizzati e utilizzati in gran parte per finanziare i nuovi investimenti. Tutto questo naturalmente a prezzo di un incremento delle tariffe, di cui abbiamo un’approssimazione attraverso l’incremento dei ricavi per abitante, pari a circa il 4% all’anno.

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Introduzione

Il Servizio Idrico Integrato (SII) in Italia ha sperimentato, nell’ultimo quarto di secolo, un processo di profonda trasformazione, che ha interessato buona parte del paese e che, nonostante frequenti rallentamenti e sporadici ripensamenti, ha prodotto una situazione in cui oltre il 60% della popolazione (AEEGSI, 2014) è servita da gestori che operano secondo logiche industriali.

È sicuramente difficile dare una rappresentazione completa dei cambiamenti in atto e di quelli che sono intervenuti in questi anni nella gestione del servizio idrico. Ci sono aspetti che riguardano il costo del servizio, quelli che attengono alla sicurezza e alla continuità nell’erogazione dell’acqua, vi sono aspetti che riguardano l’ambiente come il sistema di raccolta e trattamento dei fanghi di depurazione, vi sono infine questioni che attengono agli investimenti realizzati e quelli da realizzare. Costruire un profilo di quest’industria e del suo andamento nel tempo richiede un’osservazione attenta e un sistema di raccolta dei dati che solo l’Autorità di regolazione può essere in grado di gestire con mezzi adeguati alle necessità.

Ciò che ci si propone con questa ricerca è, più limitatamente, un’analisi dei cambiamenti che sono intervenuti nella regolazione economica del servizio idrico, leggendoli alla luce dei bilanci di un gruppo di cinquanta società di gestione. Sebbene, infatti, il processo non sia ancora pienamente compiuto e ancora oggi vi siano Regioni dove la riorganizzazione prevista dalla legge non è avvenuta o è parziale, si può affermare senza dubbio che i tempi sono propizi per il consolidamento di una riflessione sul sistema di regolazione economica del settore.

Il settore dei servizi idrici è, infatti, caratterizzato da condizioni di domanda e offerta a livello locale che la teoria economica attribuisce alla configurazione industriale del monopolio naturale (Braeutigam, 1989). In quanto tale, la regolazione, in special modo quella economica, è lo strumento a disposizione della pubblica amministrazione per evitare le conseguenze della configurazione di monopolio naturale, chiamate fallimenti del mercato, attraverso strumenti che mirano a riprodurre la pressione concorrenziale esercitata in un mercato competitivo (Laffont, 1994), considerata desiderabile in quanto conduce a situazioni di ottimalità produttiva e allocativa. La metodologia tariffaria ha, ovviamente, un ruolo decisivo in questo senso, poiché ha profonde ripercussioni sui risultati economici e patrimoniali raggiunti dalle imprese regolate.

Nell’arco di tempo dall’emanazione della legge 36/94, conosciuta come “Legge Galli”, e dall’avvio del processo di riorganizzazione dei servizi idrici, sono intervenuti numerosi cambiamenti nella regolazione economica del settore (Petretto, 2017). Nel 2012 l’attività di vigilanza sul settore è passata da organismi definiti nell’ambito di ministeri (prima quello dei lavori pubblici e successivamente in quello dell’ambiente) all’allora Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (AEEG), che ha dapprima esteso le proprie competenze a i servizi idrici (AEEGSI) e, di recente, al settore dei rifiuti (ARERA). Uno dei cambiamenti più importati è stato quello della metodologia tariffaria. In questi anni si è passati da una regolamentazione prevista da un decreto Ministeriale (Ministero dei lavori pubblici), il Metodo Normalizzato (D.M. 1 agosto 1996 “Metodo normalizzato per definire le componenti di costo e determinare la tariffa di riferimento”), che ha dettato le norme sulla tariffazione del servizio idrico integrato dal 1996 al 2011, all’attuale regolamentazione tariffaria definita dall’ARERA (AEEGSI, 2015). Il cambiamento non è di poco conto, se si considera il fatto che la revisione di un decreto Ministeriale è soggetta ai tempi e alle logiche proprie di un organo politico, mentre un’Autorità amministrativa indipendente garantisce un’azione più snella e una maggiore frequenza di adattamento della metodologia tariffaria al cambiamento delle circostanze economiche e delle priorità di sviluppo del settore. E difatti, mentre il Metodo normalizzato è rimasto invariato dal 1996 al 2011, nel periodo dal 2012 al 2017 l’Autorità nazionale ha emanato tre metodi tariffari e un provvedimento di aggiornamento biennale dell’attuale periodo regolatorio. D’altro canto, la nuova governance del settore prevede un elevato grado di discrezionalità in capo all’ARERA, che si sostanzia nella valutazione delle varie istanze motivate che gli Enti di Governo dell’Ambito e i gestori hanno la possibilità di presentare per derogare una o più disposizioni regolatorie.

La presente ricerca fornisce un’analisi della struttura patrimoniale ed economica di un campione di 50 gestori nel arco di un periodo di dieci anni misurando gli effetti che le politiche di regolazione tariffaria possono aver avuto sui bilanci e le prestazioni economiche e finanziarie dei gestori. Nello sviluppo dell’analisi dei bilanci si sono confrontati i dati del campione nel suo complesso con due forme di raggruppamento:

  • il primo raggruppamento è definito rispetto alla dimensione del fatturato, raggruppando le società per classi di fatturato: Piccole (P) < di 20 mln, Medio Piccole (MP) con un fatturato compreso fra 20 e 50 mln, Medie (M) con un fatturato compreso fra 50 e 100 mln, Grandi (G) con un fatturato > di 100 mln;
  • il secondo raggruppamento suddivide le società secondo le forma di gestione, fra società miste (PPP) e società pubbliche (WP).

In alcuni casi questi raggruppamenti offrono differenziazioni significative sia dal punto di vista quantitativo che per le implicazioni che se ne possono dedurre. In qualche caso si è utilizzato anche un raggruppamento per area geografica. Nella descrizione dei risultati si propone una lettura che guarda i valori medi del campione, il loro andamento nel tempo nonché l’impatto che la nuova metodologia tariffaria ha avuto sulle singole grandezze. Quest’ultima valutazione viene effettuata mettendo a confronto i valori assoluti e i valori medi dei due periodi tariffari in cui è possibile suddividere i dati: 2007-2011 (Metodo Normalizzato), 2012-2016 (metodi tariffari dell’ARERA).

La ricerca è organizzata come segue.

Nel paragrafo 1 viene tratteggiata la struttura della regolazione tariffaria del servizio idrico introdotta da ARERA con provvedimenti che si sono succeduti dal 2012 in poi (AEEG, 2012), (AEEGSI, 2013) e (AEEGSI, 2015)., analizzandone le differenze rispetto al precedente Metodo normalizzato.

Nel paragrafo 2 viene descritta la struttura del campione delle imprese di cui si sono analizzati i bilanci degli ultimi dieci anni. Si tratta di imprese che operano solo nel settore dei servizi idrici (c.d. mono utility) e i cui bilanci afferiscono per la gran parte al servizio idrico integrato.

Nel paragrafo 3 si propone una ricostruzione degli investimenti realizzati nel periodo, sia nel loro volume complessivo che come investimenti per abitante, mettendo a confronto i dati del campione con altri dati relativi all’Italia e con quelli di altri paesi europei ed extraeuropei.

Il paragrafo 4 è dedicato ad analizzare i ricavi dei gestori con una particolare attenzione ai ricavi per abitante che offrono un’indicazione sia pure approssimativa dell’andamento della spesa a carico dell’utenza negli ultimi dieci anni.

Il successivo paragrafo 5 è dedicato ad indagare il tema dei costi operativi. L’analisi viene sviluppata in particolare anche in questo caso sui costi operativi per abitante che permette di approfondire la relazione fra i costi unitari e la dimensione delle imprese.

Nel paragrafo 6 si analizza il rendimento del capitale investito nel suo sviluppo durante il periodo osservato mettendolo a confronto anche con altri indicatori legati al Margine Operativo Lordo e ai Flussi della Gestione Operativa.

Il paragrafo 7 è dedicato ad analizzare la composizione e l’andamento nel tempo del Patrimonio Netto con particolare riferimento all’andamento degli utili, delle riserve e degli aumenti di capitale.

I paragrafi 8 e 9 illustrano due gruppi di indicatori o quozienti legati alla struttura patrimoniale del campione dei gestori. Il primo gruppo, in una logica di “fonti e impieghi”, confronta il rapporto fra le fonti costituite da Patrimonio Netto e debiti a medio lungo periodo e gli impieghi costituiti dalle immobilizzazioni, per caratterizzarne l’adeguatezza. Il secondo gruppo analizza una serie quozienti, utilizzati anche dal regolatore inglese dei servizi idrici (OFWAT), in una logica più legata alla forma di valutazione del rating e alla ricerca di una soglia di capacità di rimborso del debito ovvero di un livello di investment grade.

Nel paragrafo 10 si analizzano in particolare l’andamento delle immobilizzazioni rispetto ai ricavi e, attraverso gli ammortamenti in rapporto alle immobilizzazioni, la vita utile residua delle infrastrutture degli impianti nonché il grado di ammortamento delle immobilizzazioni.

Nel paragrafo 11 si sintetizzano i risultati principali della ricerca.

1 Dal Metodo Normalizzato alla regolazione tariffaria dei ARERA

L’obiettivo della regolazione tariffaria nei servizi idrici è quello di garantire alle imprese regolate le risorse necessarie a finanziare le attività di gestione e di investimento, prevenendo al contempo la formazione di extra profitti (efficienza allocativa) e incentivando la minimizzazione nel tempo dei costi (efficienza produttiva).

Il regime regolatorio attuato sia dal metodo normalizzato sia dai metodi tariffari dell’ARERA è quello del tetto ai ricavi (revenue cap), che garantisce al gestore un monte ricavi complessivo, a copertura dei costi operativi e di capitale ritenuti “efficienti”. Sulla definizione di tali costi “efficienti”, vi sono delle sostanziali differenze di approccio tra il Metodo normalizzato e i Metodi tariffari dell’ARERA, che in questa sede si ripercorrono sinteticamente.

Successivamente, oltre a fornire una breve descrizione delle novità che hanno caratterizzato la successione dei provvedimenti tariffari, viene sviluppata un’analisi che confronta la struttura dei costi riconosciuti in tariffa e la struttura dei costi nei bilanci, mettendo in luce la possibile non corrispondenza e le possibili conseguenze sul risultato di esercizio.

Dal lato dei costi operativi, mentre con il Metodo normalizzato questi venivano fissati sulla base di costi progettuali modellizzati in fase di pianificazione, con i Metodi tariffari ARERA i costi operativi sono in parte fissati sulla base dei valori effettivi di specifiche categorie di costo registrati nel 2011, progressivamente inflazionati di anno in anno, in parte conguagliati a consuntivo ogni due anni.

Dal lato dei costi di capitale, mentre il Metodo normalizzato riconosceva annualmente l’ammortamento degli investimenti pianificati, prevedendo un riallineamento triennale a consuntivo, i Metodi tariffari ARERA prevedono la valorizzazione degli ammortamenti sugli investimenti effettivamente realizzati fino al secondo anno antecedente l’anno tariffario. Inoltre, mentre il Metodo normalizzato prevedeva una remunerazione sul capitale investito fissa al 7%, i Metodi ARERA prevedono una valorizzazione di oneri finanziari e fiscali che mira a riflettere l’andamento macroeconomico e dei mercati finanziari.

Concentrandosi sui provvedimenti attualmente in vigore, gli obiettivi della metodologia tariffaria dell’ARERA si possono così riassumere (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016):

  • Migliorare la qualità del servizio, attraverso un approccio basato sulla fissazione a livello locale degli obiettivi, in risposta alle criticità infrastrutturali, e degli investimenti miranti al raggiungimento degli stessi obiettivi.
  • Consentire il recupero integrale dei costi di investimento e di esercizio, inclusi i costi ambientali e della risorsa, in applicazione dei principi della Direttiva 2000/60/CE, anche alla luce dell’introduzione della nuova regolazione della qualità contrattuale e della qualità tecnica.
  • Favorire il finanziamento degli investimenti, alla luce della ridotta valorizzazione del capitale investito regolatorio (regulatory asset base – RAB) e del limitato ricorso all’indebitamento, prevedendo alcune “leve” tariffarie di autofinanziamento, attivabili in caso di elevato fabbisogno infrastrutturale.
  • Stimolare il miglioramento dell’efficienza produttiva, attraverso il mantenimento della componente endogena dei costi operativi.
  • Stimolare il raggiungimento dell’efficienza allocativa, prevedendo il riallineamento biennale delle principali componenti tariffarie.
  • Favorire l’aggregazione gestionale, in particolare la gestione unica su scala di ambito territoriale ottimale, in attuazione delle previsioni del Decreto Sblocca Italia (d.l. 133/2014).
  • Superare situazioni eccezionali di disequilibrio, introducendo misure specifiche per le imprese in difficoltà.
  • Assicurare la sostenibilità sociale delle tariffe, attraverso il limite massimo all’incremento tariffario annuale, variabile in funzione degli obiettivi di miglioramento stabiliti a livello locale.

Il meccanismo disegnato dal Metodo Tariffario Idrico per il secondo periodo regolatorio (MTI-2) (AEEGSI, 2015)     può essere ricondotto ad una rappresentazione in termini di building block[ii] (Tabella 1). L’MTI-2 consente di definire tutte le componenti di costo da riconoscere al gestore in tariffa: i costi operativi (opex), suddivisi in endogeni e aggiornabili, e i costi di investimento (capex), composti da ammortamenti, oneri finanziari e oneri fiscali. La struttura dei capex è la stessa utilizzata da OFWAT, che prevede ammortamenti e rendimento del capitale investito. Il rendimento del capitale investito si sostanzia nella separata determinazione di oneri finanziari e oneri fiscali standardizzati, ottenuti applicando due componenti idealmente distinte del WACC (weight average cost of capital) al medesimo capitale investito regolatorio. Anche in questo caso si tratta di rendimenti espressi in termini reali applicati ad un capitale regolatorio a cui, in ciascun anno, viene applicato un deflatore per tenere conto dell’effetto dell’inflazione. Nello stesso modo di OFWAT, investitori e i finanziatori vengono così protetti contro l’inflazione.

Gli OPEX, ovvero i costi operativi sono costi riconosciuti in tariffa e sono suddivisi fra costi endogeni, ovvero costi sui quali lo sforzo del gestore può portare ad un loro contenimento, e costi aggiornabili, ovvero costi che sono parzialmente o del tutto indipendenti dallo sforzo del gestore. In questo modo si fissa in anticipo l’ammontare dei costi operativi in modo da rendere possibile lo sviluppo di un incentivo per il gestore alla minimizzazione degli stessi, nel tentativo di appropriarsi dei risparmi ottenuti durante il regulatory lag[iii]. Nella regolazione MTI-2 i costi operativi endogeni non sono per ora sottoposti a procedure di efficientamento, ma sono fissati, previo adeguamento monetario, al livello già riconosciuto in tariffa per il periodo regolatorio precedente, basati a loro volta sul confronto tra i costi a consuntivo dell’anno 2011, adeguatamente inflazionati, e i costi previsti nei previgenti Piani d’ambito per le annualità tariffarie 2012 e 2013. La metodologia prevede la possibilità di riconoscere maggiori costi nel caso di variazioni sistemiche (cambiamento del perimetro di gestione), eventi eccezionali e su istanza motivata gli eventuali maggiori costi operativi legati a nuovi standard di qualità contrattuale e qualità tecnica. Nel MTI-2 sono inoltre esplicitati i costi della risorsa e quelli ambientali che tuttavia sono generalmente costituiti dalla riclassificazione di costi operativi già precedentemente riconosciuti. Un ulteriore elemento peculiare dell’MTI-2 è la presenza di una componente di costo operativo relativa alla morosità, ovvero quella parte di crediti derivanti dai ricavi che il gestore non riesce ad incassare e che finisce per diventare un costo quando il credito viene portato a perdita. Si tratta di un costo implicitamente presente anche nella regolazione tariffaria di altri paesi ma che generalmente viene considerato parte della più ampia valutazione del rischio proprio del settore nella definizione di rendimento del capitale investito. Al contrario, nella metodologia tariffaria di ARERA costituisce una separata componente di costo.

Nella definizione dei CAPEX si comprende il riconoscimento del costo del capitale nelle sue componenti: ammortamenti, rendimento del capitale investito[iv] e imposte. Lo MTI-2 utilizza, sostanzialmente[v], la metodologia per la definizione del rendimento del capitale investito in tariffa, costituita dal WACC. Nel definire le componenti che vanno a comporre il WACC il rapporto fra capitale di debito e la somma del capitale di debito più l’equity è assunto pari al 50%; inoltre, il tasso stimato per gli oneri finanziari è il medesimo per tutte le imprese. Peraltro, l’MTI-2 presenta una componente ulteriore del CAPEX: il FONI, la cui natura non è immediatamente, né facilmente, riconducibile ad una delle due componenti del CAPEX (ammortamenti e rendimento del capitale investito), poiché rappresenta un ricavo riconosciuto al gestore con esplicito vincolo di destinazione delle risorse finanziarie alla realizzazione di investimenti. Tali investimenti finanziati dal FONI e, dunque, con risorse anticipate dall’utente, sono portati in detrazione del capitale investito oggetto di remunerazione, al pari dei contributi a fondo perduto[vi]. Nella definizione dei conguagli sui ricavi, la metodologia tariffarie prevede meccanismi di adeguamento dei ricavi effettivi conseguiti dal gestore rispetto ai ricavi previsti dalla regolazione (revenue cap regulation).

Questa sommaria descrizione della metodologia tariffaria contenuta nel MTI-2 ci permette comunque di comprendere in che modo si formano i ricavi tariffari dei gestori del servizio idrico. Riassumendo, il sistema tariffario, attraverso l’approccio di tipo building block, si propone di riconoscere tutti i costi della gestione del servizio attraverso la fissazione di una tariffa che se applicata dal gestore genererà, a parità di domanda da parte dell’utenza, un volume di ricavi tale da corrispondere a tutti i costi precedentemente riconosciuti. Questo per dire che non ci sarà corrispondenza fra i singoli costi riconosciuti e le singole componenti tariffarie, ma fra l’ammontare complessivo dei costi riconosciuti e il ricavi derivanti dall’applicazione di quella tariffa.

È, inoltre, evidente che il finanziamento degli investimenti rappresenta l’obiettivo principale che si desume dalla struttura dell’MTI-2. L’introduzione del WACC, l’applicazione dei deflatori alle immobilizzazioni, la possibilità di utilizzare gli ammortamenti finanziari, la presenza della componente FONI, il riconoscimento fra i costi operativi di una componente per la morosità, sono tutti elementi che indicano l’attenzione del metodo tariffario verso i flussi di cassa e la remunerazione del capitale investito, che costituiscono gli elementi fondamentali per favorire l’investimento nel settore.

Tabella 1 – la struttura e le componenti il buildig block nelle regolazione tariffarie di AEEGSI (MTI-2)

1.1 I provvedimenti tariffari

L’analisi di questa ricerca si estende per un periodo ), durante in quali si sono succedute la competenza del Ministero dell’ambiente (prima ancora il Ministero dei lavori pubblici) e dell’ARERA. Il periodo che va da 1996 al 31 dicembre 2011 la regolazione tariffaria è stata assicurata dal Metodo Normalizzato (D.M. 1 agosto 1996 “Metodo normalizzato per definire le componenti di costo e determinare la tariffa di riferimento”). Dal 1 gennaio del 2012 la competenza è passata all’allora AEEG (oggi ARERA) che è intervenuta fin qui con tre provvedimenti: il MTT (AEEG, 2012), il MTI (AEEGSI, 2013), il MTI–2 (AEEGSI, 2015) e (AEEGSI, 2017a) I provvedimenti hanno regolato periodi temporali che comprendono gli anni che vanno dal 2012 al 2020 (Figura 1). Il primo provvedimento, il MTT ha regolato gli anni 2012-2013, il MTI gli anni 2014-2015 e il MTI-2 un periodo (regulatory lag) più lungo che va dal 2016 al 2019. Il MTI-2 è stato, comunque, oggetto di revisione dopo 2 anni (AEEGSI, 2017a), che ha comportato sia l’aggiornamento dei parametri monetari e di rendimento, sia l’introduzione di nuove disposizioni tariffarie legate al raccordo tra le altre disposizioni regolatorie dell’Autorità, come quella sulla qualità tecnica del servizio (AEEGSI, 2017b) e quella sul bonus sociale idrico (AEEGSI, 2017c).

Figura 1 – Le metodologie tariffarie e la loro vigenza

La struttura della regolazione tariffaria definita nello MTT è stata confermata dai provvedimenti che si sono succeduti nel tempo. Tuttavia sia con il MTI, che con il successivo MTI-2, sono state introdotte delle modifiche che hanno una rilevanza non trascurabile sui ricavi dei soggetti regolati (Tabella 2). Con MTI si è introdotto la possibilità di applicare gli ammortamenti finanziari, si è introdotta la componente , i costi per la morosità ( ) e gli . Con MTI-2 si sono introdotti gli  e le premialità, con l’aggiornamento di MTI-2 per il periodo 2018-2019 si sono infine introdotti gli . Una parte di questo modifiche sono oggetto dell’analisi del paragrafo successivo.

Tabella 2 – I provvedimenti tariffaria e la loro evoluzione

1.2 Costi riconosciuti in tariffa e costi del gestore

Vi sono varie metodologie per pervenire al monte ricavi da riconoscere al gestore (Green & Pardina, 1999). Talune sono basate su un approccio finanziario e mirano a stabilire la quantità di risorse necessaria all’impresa per finanziare la propria gestione. Altre metodologie si basano su un approccio economico e su nozioni più o meno definite di “costi efficienti”. Tra queste ultime, la metodologia basata sui building blocks è senza dubbio quella più applicata (EuropeEconomics, 2009, p. 65), (OFWAT, 2011, march, p. 11).

L’idea sottesa a questa rappresentazione è che la copertura dei costi, quantificati in parte in modo da rispecchiare i costi effettivi di esercizio e in parte in modo da imprimere incentivi all’efficienza, consenta al gestore di generare i ricavi e i flussi di cassa tali da consentirgli di far fronte alle spese di gestione e di finanziare gli investimenti necessari al servizio. Seguendo questo schema è interessante cercare di comprendere quale sia la relazione fra i costi riconosciuti in tariffa e i costi nella rappresentazione dei bilanci delle imprese che gestiscono il servizio idrico in Italia. Una volta definita questa relazione sarà interessante verificare quali siano gli effetti dei costi riconosciuti in tariffa sui bilanci delle società del campione.

Con questo premessa, si è utilizzato la rappresentazione dello MTI-2 attraverso lo schema di tipo building block, già definito in altre ricerche (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016, p. 23), e gli si è affiancata la struttura del conto economico tipica del bilancio di un’impresa di gestione del servizio idrico integrato (Tabella 42). Successivamente si è proceduto a inserire in questo schema tutte le componenti di costo dello MTI-2: i costi operativi (Opex), i costi di capitale (Capex), vale a dire gli ammortamenti, gli oneri finanziari e gli oneri fiscali, e il Fondo nuovi investimenti (FoNI), di cui si dirà più oltre. Nella rappresentazione delle componenti tariffarie non figurano esplicitamente né i costi ambientali (ERC), che rappresentano una mera riclassificazione di taluni Opex, né, per semplicità espositiva, i conguagli (RC) garantiti da meccanismo di revenue cap della regolazione[vii].

Nell’affiancare le componenti tariffarie alle categorie di costo del Conto Economico si è affrontato il tema delle modalità di contabilizzazione di alcune specifiche componenti di costo, che potrebbero non essere omogenee tra i gestori del servizio. Ci si riferisce in particolare alle modalità di contabilizzazione del FoNI, che alternativamente può essere interamente incluso fra i ricavi o, viceversa, contabilizzato come contributo a fondo perduto sugli investimenti, escludendolo dai ricavi a meno del rilascio annuale, modificando così l’effetto che lo stesso FoNI produce sul valore della produzione, sul MOL, sul risultato operativo e sul risultato di esercizio[viii]. Nella rappresentazione si è ipotizzato che il FONI sia contabilizzato interamente come ricavo.

1.3 I costi operativi (Opex)

La prima parte della rappresentazione è dedicata agli Opex (Figura 2). I costi riconosciuti in tariffa sono innanzitutto i Costi endogeni ( ) così come risultavano nei bilanci di ciascun gestore al 31/12/2011 e a cui ogni anno viene aggiunto il tasso di inflazione, senza operare alcun conguaglio negli anni successivi. A questi si aggiungono i costi aggiornabili (  ), così come  risultano dal bilancio di due anni precedenti (a-2), che seguono una logica di conguaglio ogni due anni, seppur con alcuni limiti finalizzati a fornire incentivi all’efficienza, per la componente dell’energia elettrica ( ) e dei costi all’ingrosso ( ). Per ultimo si aggiunge l’eventuale presenza di nuovi costi operativi (OP New, a, Opex QC, Opex QT) nel caso in cui al singolo gestore vengano riconosciute le circostanze che prevedono un aumento dei costi operativi. Un’ultima categoria di costi riconosciuti, gli , non sono da considerare nel Conto Economico ma più propriamente fra le componenti finanziarie (debiti e crediti)[ix]. Quindi la prima parte degli Opex sono proprio i costi operativi sostenuti dal gestore[x], seppur manipolati dai meccanismi regolatori, che nella loro dinamica temporale seguono due percorsi di adeguamento diversi. Ne compongono una seconda parte che si aggiunge ai primi, i nuovi costi operativi che vengono riconosciuti in presenza delle circostanze previste per il loro inserimento in tariffa. La componente Opex quindi aumenta nel tempo in ragione dell’inflazione, della dinamica passata dei costi passanti e dell’eventuale presenza di nuove attività da svolgere. Corrispondentemente, ci dovremmo aspettare un incremento dei costi operativi nei bilanci del campione. In ogni caso la natura di queste componenti tariffarie sembra corrispondere alla natura dei costi di bilancio e di conseguenza a maggiori costi di bilancio il sistema tariffario riconosce maggiori costi in tariffa. Come vedremo analizzando le altre componenti tariffarie, non necessariamente ad un costo riconosciuto in tariffa può corrispondere una precisa voce di costo nel bilancio.

Figura 2 – Costi operativi in tariffa e costi operativi in bilancio

1.4 Gli ammortamenti

Gli ammortamenti (Figura 3) riconosciuti in tariffa sono riconducibili a tre categorie: gli ammortamenti sulle immobilizzazioni di proprietà del gestore ( ); gli ammortamenti dei contributi a fondo perduto ( ) e infine gli ammortamenti sulle immobilizzazioni di terzi ( ). Di queste tre categorie, le prime due possono trovare un riferimento negli ammortamenti del bilancio del gestore. Infatti i gestori del SII possono contabilizzare le immobilizzazioni alternativamente al lordo o al netto dei contributi in conto impianti. Con la prima modalità, che pare di più ampia adozione, gli ammortamenti del Conto Economico sono relativi al costo di investimento al lordo dei contributi ricevuti; parallelamente e a compensazione, tra gli altri ricavi sono imputate le quote annuali di ammortamento dei contributi. Quindi gli  e gli  possono trovare le corrispondenti voci nel bilancio. Al contrario, gli ammortamenti sulle immobilizzazioni di terzi ( ) non trovando un corrispondente costo in bilancio vanno a comporre il FoNI e finiscono per incrementare il Margine Operativo Lordo, in maniera più o meno evidente in funzione del criterio di contabilizzazione del FoNI stesso e il reddito operativo.

Non è da trascurare il fatto che vi è un intrinseco disallineamento tra gli ammortamenti a bilancio e gli ammortamenti tariffari, in quanto questi ultimo vengono riconosciuti con due anni di ritardo rispetto all’entrata in esercizio delle immobilizzazioni.

Un altro elemento che differenzia gli ammortamenti riconosciuti in tariffa e quelli che troviamo in bilancio è relativo alle modalità di calcolo. Nel sistema tariffario il cespite viene moltiplicato per un deflatore  che varia a seconda dell’anno di acquisizione e viene ammortizzato con un’aliquota inferiore a quella fiscale, nella notazione . In questo caso non possiamo sapere in che modo queste componenti tariffarie possano trovare o meno piena corrispondenza nei costi in bilancio. Infatti, mentre da una parte il cespite viene rivalutato con un deflatore, perdendo il riferimento al valore del cespite in bilancio, dall’altra per calcolare l’ammortamento la metodologia tariffaria utilizza una vita regolatoria delle immobilizzazioni più lunga di quelle previste dalla normativa fiscale e quindi un’aliquota di ammortamento minore di quella fiscale: . Probabilmente l’aumento di valore del cespite e un’aliquota pari alla metà di quella fiscale finiscono per riconoscere in tariffa un ammortamento non superiore ma inferiore a quello che troviamo nei bilanci. La metodologia tariffaria consente tuttavia di riconoscere una vita utile più breve di quella regolatoria, limitandone la possibilità ai casi di ingenti necessità di nuovi investimenti e prevedendo l’azzeramento delle componenti tariffarie derivanti dalla valorizzazione dei beni di terzi di cui per ora abbiamo visto solo di ammortamenti . In questo caso è possibile che la componente tariffaria degli ammortamenti sia anche superiore agli ammortamenti in bilancio. Vi è tuttavia la possibilità che il bilancio adotti una metodologia di ammortamento più aderente ai valori degli ammortamenti riconosciuti in tariffa attraverso l’uso dell’ammortamento del valore residuo annuale  avvicinandosi così al valore degli ammortamenti previsti dalla metodologia tariffaria.

 

Figura 3 – Gli ammortamenti, ammortamenti sui contributi a fondo perduto, ammorta

1.5 Gli altri costi operativi in bilancio

Il sistema tariffario non prevede il riconoscimento di accantonamenti a fondo svalutazione crediti, o meglio quando ha definito i costi operativi da riconoscere in tariffa ha escluso tutta categoria B10 dei costi della produzione. Tuttavia con il MTI (AEEGSI, 2013), la metodologia tariffaria ha introdotto una nuova componente di costi operativi (Figura 4) che ha definito come componente a copertura del costo di morosità  Tale componente, precisa il provvedimento, è valorizzata applicando al fatturato dell’anno a-2, inclusa l’IVA, l’unpaid ratio a 24 mesi. Tale tasso viene declinato nei suoi valori massimi differenziati su base di macro aree geografiche, a cui si può derogare solo in caso di grave pregiudizio all’equilibrio economico finanziario. Le percentuali sono state così aggiornate con il MTI-2: 2,1% per il nord, 3,8% per il centro e 7,1% per il sud. Il riferimento all’unpaid ratio della metodologia è vicina ai principi contabili[xi], che si riferiscono alla “svalutazione per tenere conto della possibilità che il debitore non adempia integralmente ai propri impegni contrattuali”. La metodologia tariffaria utilizza un metodo parametrico per incentivare chi avesse maggiore morosità ad avvicinarsi al valore standard[xii]. Riconoscendo un certo ammontare di morosità è come se si riducesse il costo (perdita) del mancato pagamento da parte dell’utente. Un costo che sembrerebbe appartenere più alla componente del rischio da remunerare rispetto al capitale investito che come costo operativo[xiii]. Tuttavia ciò che viene riconosciuto come costo della morosità ( ), non corrisponde necessariamente nè alle perdite su crediti per morosità nè all’accantonamento annuale a fondo svalutazione crediti che possiamo trovare in bilancio. L’accantonamento che troviamo in bilancio è una previsione di perdita mentre il  è il riconoscimento di una componente tariffaria. In questo modo è possibile che gli accantonamenti siano inferiori al  e quindi per differenza questo vada ad incrementare il margine operativo lordo e il reddito operativo.

Figura 4 – Gli altri costi operativi in bilancio

1.6 Gli oneri finanziari, gli oneri fiscali e il FoNI verso la gestione finanziaria e il risultato d’esercizio del bilancio

L’ultima parte della rappresentazione è quella relativa al rendimento sul capitale investito, ovvero quella componente tariffaria diretta a coprire i costi del debito e il costo opportunità del capitale dell’azionista, che insieme finanziano gli investimenti (Figura 5). Parafrasando, con queste componenti il regolatore affronta la questione del costo del capitale per assicurare che l’investitore sia in grado di reperire sul mercato i capitali necessari a finanziare l’investimento stesso. Le componenti tariffarie sono: gli , la componente a copertura degli oneri finanziari sulle immobilizzazioni di proprietà del gestore, gli , la componente a copertura degli oneri fiscali del gestore. Sia gli  che gli   si ottengono applicando dei valori percentuali sul Capitale investito netto  che viene così determinato: . Quindi il rendimento non viene applicato solo sulle immobilizzazioni nette ( ) ma vi si aggiunge il Capitale Circolante Netto ( ) e vi si sottraggono alcuni Fondi di accantonamento ( ), i cui accantonamenti sono stati riconosciuti nei costi operativi del 2011 presi a riferimento per il calcolo degli , oltre all’eventuale quota parte di FoNI non ancora investita[xiv]. Al Capitale Investito Netto (  così definito si applicano quindi gli  pari al 3,78%, a questi si aggiunge una maggiorazione dell’onere finanziario (time lag) pari all’1%, a copertura degli oneri derivanti dallo sfasamento temporale tra l’anno di realizzazione degli investimenti e l’anno di riconoscimento tariffario (AEEGSI, 2015, p. 40). Infine si applicano gli  pari al 1,74% su una stima parametrica del risultato ante imposte, basata sullo stesso capitale investito. Quindi per calcolare il rendimento dopo le imposte del capitale investito si applica al Capitale Investito Netto ( ) prima definito un tasso pari a 6,39%. Questo gruppo di componenti tariffarie ( ) non trovano una corrispondenza di costi in bilancio ma nel loro insieme vanno a generare le risorse con cui spesare la gestione finanziaria, le imposte e gli utili dopo le imposte.

Per completare il quadro delle componenti tariffarie occorre aggiungere il Fondo nuovi investimenti (FoNI) che viene definito come la somma delle seguenti componenti: , dove  è una componente riscossa a titolo di anticipazione per il finanziamento dei nuovi investimenti,  sono gli ammortamenti sui contributi a fondo perduto e   è la componente riscossa a titolo di eccedenza del costo per l’uso delle infrastrutture di terzi. Nessuna di queste componenti trova un corrispondente costo in bilancio e solo se il FoNI verrà contabilizzato come contributo a fondo perduto sugli investimenti non andrà ad incrementare, attraverso un maggior margine operativo lordo, il risultato d’esercizio.

Figura 5 – Gli oneri finanziari, il time lag, gli oneri fiscali e il FoNI

1.7 Costi in tariffa e costi in bilancio, osservazioni

Per i costi operativi, come abbiamo cercato di indicare precedentemente, non ci dovremmo aspettare particolari scostamenti, a parte situazioni patologiche, fra ciò che è riconosciuto in tariffa e i costi operativi delle società. Discorso diverso per la componente tariffaria degli ammortamenti dove sono possibili scostamenti rispetto alla componente tariffaria che utilizza sia una base imponibile (cespiti rivalutati) che aliquote di ammortamento (vite utili più lunghe) probabilmente diverse da quelle che troviamo nei bilanci, e il cui risultato è difficile da valutare. Per la componente della morosità, come abbiamo visto, probabilmente una parte corrisponde ad un costo in bilancio e una parte va a incrementare il margine operativo lordo e il reddito operativo. Per il rendimento sul capitale investito abbiamo visto che il relativo tasso si applica su un capitale investito netto superiore a quello di bilancio, sia per via dell’applicazione de deflatore, sia per il più lento ammortamento. Tuttavia, nel bilancio non figura il costo opportunità del capitale proprio, considerato invece in tariffa. Vi è infine il FoNI, che a seconda di come viene contabilizzato potrà a sua volta incrementare in misura maggiore o minore il rendimento a bilancio. Complessivamente, quindi, ci si dovrà attendere un rendimento del capitale investito in bilancio superiore a quello previsto come oneri finanziari (time lag compreso) e oneri fiscali (Tabella 3).

Tabella 3 – Componenti tariffarie, corrispondenza al bilancio e possibili effetti sul risultato di esercizio

2 Il campione dei cinquanta gestori il servizio idrico

Con queste premesse si è quindi proceduto ad analizzare i bilanci delle imprese. Il campione è costituito da 50 società di cui sono stati elaborati i bilanci di dieci anni (2007-2016). Non per tutte e 50 società è stato possibile disporre dell’intero periodo, per questo motivo nei grafici viene indicato il numero delle società di cui si sono elaborati i dati. In alcuni casi i dati estratti dai bilanci si presentavano così anomali da condizionare il valore medio del campione e per questo motivo sono stati esclusi dal calcolo della media.

L’elemento che caratterizza ciascuna delle società incluse nel campione è quello di essere mono servizio, ovvero gestire solo e esclusivamente il servizio idrico integrato. Questa circostanza ha reso possibile l’analisi del bilancio senza nessuna elaborazione relativa alla situazione patrimoniale o al conto economico. La scelta di selezionare le società mono servizio ha fatto sì che rimanessero fuori dal campione le società multiservizio che rappresentano comunque una realtà importante del servizio idrico integrato in Italia e che trovano espressione anche nelle gradi società quotate.

Un altro elemento che caratterizza il campione è quello della dimensione. Il campione è stato costruito, considerando il valore della produzione, prendendo le prime 50 società mono servizio. In questo modo, considerando l’ultimo anno dei bilanci del campione (2016) si va da un massimo di 560 milioni a un minimo di 13 milioni di valore della produzione annua.

La popolazione servita dalle società del campione costituisce il 44% della popolazione dell’Italia. Come si vede dalla Tabella 4, la popolazione servita dalle società del campione è inferiore a quella dell’indagine del BlueBook che comprende circa 140 società, ma è tuttavia una percentuale significativa della popolazione dell’Italia.

Tabella 4 – Il campione e la popolazione residente in Italia al 2015

Il campione è stato poi suddiviso in classi di fatturato e per assetto proprietario. Il raggruppamento per classi di fatturato disegna un campione dove le società Grandi sono per numero il 18% (9) del campione ma ne costituisco più o meno la meta in termini di ricavi e popolazione servita. Di contro le società Piccole costituiscono per numero il 22% del campione ma ne rappresentano solo il 5/3% in termini di ricavi e popolazione servita. Questo raggruppamento ha consentito di valutare il peso della dimensione nella caratterizzazione delle prestazioni economiche e finanziare delle società.

Tabella 5 – I dati del campione, società, ricavi, addetti, popolazione servita, per dimensione del fatturato

Il raggruppamento per assetto proprietario vede due sole forme di gestione: le società miste (PPP) e le società pubbliche (WP). Nel campione prevalgono le società pubbliche che costituiscono per numero il 70% delle società e il 61% della popolazione servita.

Tabella 6 – I dati del campione, società, ricavi, addetti, popolazione servita, per assetto proprietario

3 Gli investimenti, gli investimenti per abitante, confronti

Il primo tema che è stato analizzato è quello degli investimenti realizzati dalle imprese del campione nel periodo (2007-2016). La ricostruzione degli investimenti realizzati in questi anni non è semplice perché non esiste una fonte unica ufficiale da cui poter ricostruire gli investimenti realizzati dai gestori. Si è quindi proceduto a rappresentare gli investimenti attraverso gli incrementi delle immobilizzazioni rilevate dai bilanci a cui sono stati sommati gli ammortamenti effettuati nell’anno.

3.1 Gli investimenti annui

Il valore degli investimenti del campione nel periodo 2007-2016 è pari a 9.434 milioni di euro. Gli investimenti annui del campione del 2016 sono pari a 1.380 mln (Tabella 7), il 37% in più di quelli del 2008 (1.008 mln). Se si confrontano le medie dei due periodi tariffari, si vede come con il MTI il valore medio annuo sia pari a 1.193 mln, il 38% in più di quelli del periodo tariffario precedente (867 mln). Con l’approvazione dell’MTI (AEEGSI) gli investimenti complessivi hanno subito un consistente incremento.

Il campione presenta un incremento dei valori medi per tutte le classi (dimensione e forme di gestione). Se si guarda alla classificazione per dimensione del fatturato, l’incremento più consistente fra i due periodi tariffari è quello delle imprese medie che passano da 130 a 200 mln annui (53%). L’ammontare complessivo maggiore è quello realizzato dalla imprese grandi che passano una media di 550 a 759 mln con un incremento del 38%. Per quanto riguarda le forme di gestione, le società pubbliche che realizzano il maggior volume d’investimenti, presentano l’incremento maggiore fra i due periodi, passando da una media annua di 532 a una di 794 mln (49%).

Tabella 7 – Investimenti annui (mln di euro)

Grafico 1 – Gli investimenti annui del campione, per classi di dimensione e per forma di gestione  2008-2016, (mln di euro)

Grafico 1 – Gli investimenti annui del campione, per classi di dimensione e per forma di gestione 2008-2016, (mln di euro)

3.2 Gli investimenti annui per abitante

L’ammontare degli investimenti realizzati nel decennio (2007-2016) può essere valutato meglio se espresso in investimenti per abitante in modo da confrontare le diverse prestazioni delle società e per confrontare i dati del campione con quelli nazionali e con le statistiche internazionali sullo stesso tema. Gli investimenti annui per abitante costituiscono inoltre una rappresentazione più efficace per misurare le variazioni del volume degli investimenti rispetto al campione utilizzato in modo da tenere di conto della variazioni del numero delle imprese del campione e della loro popolazione gestita. Il valore medio è del campione nel periodo è paria a 39 euro per abitante per anno (Tabella 8).  L’investimento medio annuo del 2016 è pari a 50,4 euro per abitante, il 22% in più rispetto al valore del 2008 (41,4). L’investimento medio per abitante prima sale (2012) poi scende (2013) per poi risalire costantemente (2014-2016). Con l’applicazione del MTI il valore dell’investimento per abitante del periodo è pari 40,8 del 11% in più rispetto a quello del periodo tariffario precedente (36,7). Il campione presenta un incremento per quasi tutte le classi (dimensione e forme di gestione). Per quanto riguarda la dimensione, il volume degli investimenti per abitante maggiore del periodo è quello delle imprese piccole (43,3 euro). L’introduzione del MTI ha contribuito in particolare ad incrementare gli investimenti per abitante delle società medie (22%) che tuttavia presentavano e presentano i valori più bassi di questa distribuzione. Nella classificazione per forma di gestione, le società miste hanno l’investimento medio per abitante più elevato (41,7) rispetto alle società pubbliche (38,3). L’effetto dell’MTI ha prodotto un incremento maggiore degli investimenti per abitante nelle imprese miste (21%) rispetto alle società pubbliche (4%).

Tabella 8 – Investimenti annui per abitante (euro)

3.3 Gli investimenti annui per abitante, confronti

I dati degli investimenti annui per abitante come calcolati precedentemente possono essere confrontati con i dati del BlueBook (Utilitatis, 2017) e le previsioni degli investimenti contenuta nei provvedimenti tariffari (AEEGSI, 2017) (Tabella 9). I dati sugli investimenti per abitante del campione non sono molto diversi da quelli pubblicati nel BlueBook (2007-2015). La differenza tende ad allargarsi nel 2015 (37 del BlueBook contro i 46 del campione). Le previsioni contenute nei provvedimenti tariffari si riferiscono al periodo 2016-2019 e l’unico anno in cui è possibile il confronto con il campione è il 2016 dove per l’AEEGSI gli investimenti per abitante si attestano a 42 euro mentre nel campione il valore è di 50 euro. La tendenza degli investimenti per abitante è sicuramente in aumento. I dati sono comunque molto simili.

Tabella 9 – Gli investimenti annui per abitante nelle stime del campione, del BlueBook e dell’AEEGSI, (euro)
Grafico 3 – Gli investimenti annui per abitante, confronto con altre stime in Italia

I paesi per i quali è stato possibile reperire dei dati sugli investimenti nel settore idrico e calcolare gli investimenti per abitante sono: gli USA (ASCE, 2011), l’Inghilterra e il Galles (OFWAT), la Germania, l’Olanda e la Francia (bdew & civity, 2015). I dati sono stati trasformati in euro Italia con gli indici PPP dell’OECD (Tabella 10). Le serie temporali tuttavia non sono allineate e il confronto deve tenere conto di questa condizione.

Gli investimenti per abitante dell’Italia (50 euro) sono poco più della metà di quelli di Inghilterra e Galles del 2010 (98), poco meno della metà di quelli della Francia (109) e dell’Olanda (106) e meno di un terzo di quelli USA (154), che forse contengono anche investimenti sulle acque meteoriche, del 2010. Possiamo dire che siamo ancora lontani da quelli che sembrano essere gli standard degli investimenti pro capite annui di alcuni fra i paesi più industrializzati.

Tabella 10 – Investimenti annui per abitante nel confronto internazionale (PPP, euro Italia)

Grafico 4 – Investimenti annui per abitante nel confronto internazionale, (PPP, euro Italia)

4 I ricavi e i ricavi per abitante

I ricavi considerati nell’analisi sono la fonte con la quale i gestori finanziano costi di gestione e i costi d’investimento. I ricavi sono solo quelli relativi alle vendite e prestazioni, ovvero i ricavi legati prevalentemente all’applicazione della tariffa del servizio idrico. Oltre a questi ricavi si possono avere variazioni nelle rimanenze, incrementi delle immobilizzazioni, altri ricavi e contributi in conto esercizio.

4.1 I ricavi

Nella voce ricavi sono considerati solo i ricavi da vendite e prestazioni, come proxy dei ricavi generati dall’applicazione agli utenti della tariffa. I ricavi del campione sono passati da 2.473 mln del 2007 a 4,106 milioni del 2016 (+66%) (Tabella 11). L’incremento non è associato solo alle variazioni tariffarie (investimenti e altri interventi regolatori) ma in qualche caso anche all’estensione dei comuni serviti dalle società. La crescita maggiore è quella delle società di medie dimensione (+105%). Le imprese grandi hanno un volume di fatturato commisurabile alla somma di tutte le altre imprese. Le imprese pubbliche fatturano più del 50% delle imprese miste e presentano una crescita di volume fatturato maggiore (+72%).

Il valore medio del fatturato nel periodo regolato da AEEGSI (MTI) rispetto al Metodo Normalizzato, nel campione è incrementato del 32%. L’incremento del valore medio annuo è maggiore anche per tutte le classificazioni e varia dal 25 al 46%.

Tabella 11 – I ricavi annui del campione, per dimensione di fatturato e per forma di gestione, 2007-2016 (mln di euro)
Grafico 5 – I ricavi del campione, per classe di dimensione e per forma di gestione (2007-2016), milioni di euro

4.2 Ricavi per abitante

Il calcolo del ricavo per abitante ci permette di escludere l’effetto dell’ampliamento degli utenti serviti (comuni) e misurare il peso dell’incremento dei ricavi sugli abitanti (utenti). Per misurare correttamente l’incremento della spesa occorrerebbe disporre dell’articolazione tariffaria per ciascun gestore per l’intero periodo osservato, solo così si potrebbe calcolare la spesa sulla base di un’ipotesi di consumo virtuale (per esempio 120/150 mc anno per utente). Tuttavia la variazione dei ricavi per abitante ci da una misura dell’incremento della spesa dell’utente che è sicuramente approssimativa perché l’articolazione tariffaria potrebbe contenere qualche forma di sussidiazione fra tipologie di utenza, ma è comunque indicativa dell’ordine di grandezza degli incrementi.

Il campione presenta un incremento dei ricavi per abitante sull’intero periodo decennale (2007-2016) pari al 42% (Tabella 12). Se si guarda alla dimensione, sono le imprese piccole che presentano il maggior incremento con il 48%. Per quanto riguarda la classificazione per forma di gestione, sono allora le imprese miste che presentano il maggior incremento del periodo con il 52%. I minori incrementi si hanno per le società pubbliche (32%) e per le imprese medie (37%). I maggiori ricavi per abitante sono quelli delle imprese piccole 199 euro (2016), i minori ricavi per abitante sono quelli delle imprese medie 148 euro (2016). Le società miste hanno un ricavo per abitante pari a 173 euro (2016) contro i 161 euro delle imprese pubbliche.

L’incremento medio del periodo regolato dall’MTI rispetto al Metodo normalizzato è del 28%. Gli incrementi sono probabilmente legati in primo luogo al volume degli investimenti realizzati ma in parte anche ai maggiori costi operativi riconosciuti.

Tabella 12 – I ricavi per abitante, per dimensione di fatturato e per forma di gestione, 2007-2016 (euro)
Grafico 6 – I ricavi per abitante del campione, per classe di dimensione e per forma di gestione (2007-2016), euro

5 I costi operativi: costi operativi, costi operativi per abitante, costi operativi per abitante e densità della popolazione servita rispetto ai km di rete (acquedotto)

I costi operativi rappresentano una grandezza tradizionalmente oggetto della regolazione tariffaria, che mira a contenerne la dinamica in uno sforzo di efficientamento gestionale. I costi operativi devono essere, quindi, “efficienti”, ma anche “sufficienti” all’erogazione di un servizio che soddisfi gli standard qualitativi richiesti.

Il provvedimento di AEEGSI ne ha fissato la componente endogena al livello di quelli risultanti nei bilanci dei gestori del 2011 e ne consente l’evoluzione sulla base del solo adeguamento inflativo. Ad alcuni gestori siano riconosciuti maggiori costi operativi per un eventuale allargamento del perimetro gestito e per l’adeguamento agli standard di qualità contrattuale e tecnica. Sotto questo profilo l’AEEGSI, ha annunciato l’intenzione, ma non ha ancora definito un modello, di regolazione parametrica dei costi operativi.

Nel calcolo dei costi operativi dei gestori si sono sommati i seguenti costi: Materie prime e di consumo, Servizi, Godimento beni di terzi, Totale costi del personale, Variazioni materie prime e Oneri diversi di gestione. Da questo totale si è detratta la componente dei ricavi a rettifica dei costi (Incrementi di immobilizzazioni) oltre che una serie di altre poste che nella regolazione tariffaria sono giudicate non strettamente funzionali all’erogazione del servizio (accantonamenti in eccesso rispetto all’applicazione di norme tributarie, costi di marketing e liberalità) o dipendenti da comportamenti sanzionabili del gestore (sanzioni e penalità, spese legali in cui la parte è risultata soccombente).

5.1 I costi operativi

I costi operativi del campione sono aumentati dal 2007 al 2016 del 42%, circa 20 punti in meno dell’incremento dei ricavi nello stesso periodo (Tabella 13). Il maggior incremento dei costi operativi è quello delle imprese medie (69%), il minor incremento è quello delle imprese piccole (28%). Nella distribuzione per forme di gestione, il maggior incremento è quello delle società pubbliche (50%), contro il 28% delle società miste.

L’incremento medio durante l’MTI è del 21% rispetto al valore medio del periodo precedente. L’incremento è positivo per tutte le classificazioni e varia fra il 13% (imprese piccole) e il 30% (imprese medie).

Vale per i costi operativi nel loro valoro assoluto la stessa considerazione svolta per i ricavi. L’incremento potrebbe essere legato all’estensione del territorio servito dalle società.

Tabella 13 – I costi operativi del campione, per dimensione di fatturato e per forma di gestione, 2007-2016 (mln di euro)
Grafico 7 – I costi operativi del campione, per classe di diemnsione e per forma di gestione (2007-2016), milioni di euro

Sarebbe interessante confrontare l’evoluzione dei costi operativi a bilancio con l’evoluzione di quelli riconosciuti in tariffa. Tuttavia, la mancanza dei relativi dati tariffari non consente tale analisi. Ciò che è possibile confrontare è l’andamento dell’inflazione effettiva rispetto a quella riconosciuta dai metodi tariffari. La Tabella 14 mette in evidenza che, mentre l’inflazione riconosciuta con il Metodo normalizzato, pari all’inflazione programmata, è stata quasi sempre inferiore all’indice dei prezzi al consumo (NIC), l’inflazione riconosciuta dai metodi tariffari ARERA è stata quasi sempre superiore a quella effettiva. Ciò può aver creato spazio per maggiori spese da parte dei gestori, in tal modo spiegando la dinamica dei costi operativi effettivi, o anche può aver contribuito ad un aumento del rendimento complessivo sul capitale investito, come evidenziato nei successivi paragrafi.

Tabella 14 – Inflazione (NIC), Inflazione programmata (MN), Tasso inflazione sui costi operativi (ARERA)
Grafico 8 – Inflazione, inflazione programmata (Metodo normalizzato) e inflazione sui costi operativi (ARERA)

5.2 I costi operativi per abitante

Come per i ricavi, i costi operativi per abitante consentono confronti più efficaci sia rispetto al tempo che all’interno delle categorie. I costi operativi per abitante del campione nel periodo sono incrementati del 13% contro il 42% dei costi operativi complessivi (Tabella 15). Questo confermerebbe che l’incremento dei costi operativi complessivi potrebbe essere legato in gran parte all’estensione dei comuni serviti. Nella ripartizione per classi di fatturato, l’incremento maggiore si ha per le imprese piccole (+23%), quello minore per le imprese medio piccole (+10%). Nella ripartizione per forma di gestione, l’incremento maggiore è quello delle società miste (+21%) contro il 9% delle società pubbliche. Un dato di rilievo è che, se si guarda il valore dei costi operativi per abitante, si può notare come ci sia un rapporto inversamente proporzionale fra la dimensione del gestore e il costo unitario. Le imprese più piccole hanno costi unitari maggiori (147) delle medio piccole (136) che a loro volta hanno costi unitari maggiori delle medie (111). Lo stesso vale per le medie rispetto alle grandi (97). La media dei costi unitari delle società grandi è del 33% minore della media dei costi unitari delle società piccole. Se ne deduce che i costi unitari decrescono al crescere della dimensione. Le imprese miste hanno costi unitari (101) inferiori rispetto a quelli delle imprese pubbliche (131) nell’ordine del 25% circa.

Tabella 15 – I costi operativi per abitante del campione, per dimensione di fatturato e per forma di gestione, 2007-2016 (euro)
I costi operativi per abitante del campione, per dimensione di fatturato e per forma di gestione, 2007-2016 (euro)

5.3 Costi operativi per abitante e densità della popolazione servita rispetto ai km di rete (acquedotto)

Visto che i costi unitari diminuiscono all’aumentare della dimensione delle società è presumibile che vi siano economie di scala nel settore, vale a dire una correlazione inversamente proporzionale fra costi unitari e la dimensione della gestione (fatturato). Un’altra ipotesi, non necessariamente alternativa, è che vi siano aspetti territoriali che influiscono sui costi unitari. Sul tema dell’esistenza di economie legate all’aspetto dimensionale nel settore dei servizi idrici si va sviluppando l’ipotesi che queste siano legate più alla densità della popolazione insediata in un dato territorio (settlement density, ovvero:”lower capital requirements while outputs are higer” (Zschille M., 2016, p. 24) che alla dimensione complessiva dell’impresa (Wenban-Smith, H.B., ?). Nel nostro caso abbiamo utilizzato la popolazione servita per km di rete di acquedotto, attraverso cui si prova a cogliere l’aspetto legato alla densità della popolazione. Si ipotizza che, quanto più la popolazione è dispersa sul territorio, tanto maggiore sarà la lunghezza delle reti necessaria a servire tutti gli utenti e, di conseguenza, maggiori i costi di gestione e di manutenzione per unità di prodotto erogato. Tale analisi mira a verificare gli effetti della cosiddetta network density, vale a dire l’effetto della numerosità dei clienti a parità di km di rete. Non si dispone della serie storica né della popolazione servita, né dei km di rete di acquedotto. Sia della popolazione che dei km di rete di acquedotto è stato possibile ricostruire il dato presente nel formulario (ModCo) dell’AEEGSI relativa alla prima applicazione del MTT (AEEGSI, 2012). Utilizzando questi dati è stato possibile calcolare per quasi tutti i gestori la densità della popolazione servita rispetto ai km di rete di acquedotto. Sulla base di queste considerazioni si è proceduto a calcolare la correlazione dei costi operativi per abitante con la popolazione per km di rete di acquedotto. In questo caso la correlazione c’è ed è abbastanza significativa (R2=0,62/0,38 a seconda dell’anno osservato). Se dai dati di base si eliminano le imprese di piccola dimensione gli indici di correlazione aumentano (R2=0,66/0,43). Il costo medio non sembra diminuire al crescere della dimensione delle società bensì al crescere della densità della popolazione rispetto alla rete. Sarebbe quindi una circostanza ambientale (la concentrazione della popolazione sulla rete, ovvero la presenza di centri abitati di grandi dimensioni) a determinare una diminuzione dei costi unitari. In questo caso le aggregazioni non porterebbero necessariamente a minori costi unitari ma semplicemente a costi unitari diversi, maggiori per alcuni e minori per altri.

Grafico 9 – Grafici di correlazione costi operativi per abitante vs densità (popolazione/km di rete), 2007 e 2016

5.4 L’accantonamento a svalutazione crediti

A conclusione dell’analisi sui costi operativi, è interessante vedere quanto le società hanno contabilizzato come accantonamento al fondo svalutazione crediti, ovvero quale è stato l’ammontare dei crediti verso utenti che le società hanno ritenuto opportuno considerare di difficile realizzo.

Come si può vedere (Tabella 16) l’ammontare di accantonamento a fondo svalutazione crediti del campione è pari al 3,3% del fatturato (compreso IVA). Si tratta di un valore quasi tre volte quello del 2007 (1,2%). Valori di accantonamento ancora più elevati li presentano le società medie (3,9%) e le società grandi (3,9%). L’incremento maggiore su tutto il periodo considerato si è registrato per le società piccole (+915%). Non ci sono pressoché differenze fra gli accantonamenti delle società miste e quelle pubbliche. Gli accantonamenti durante il periodo dell’MTI sono aumentati rispetto alla precedente metodologia tariffaria per tutte le categorie, ma in misura minore per le imprese piccole (+9,6%) e per le miste (+3,4%). Se si guarda alla ripartizione geografica dell’accantonamento delle imprese del campione, nel 2016 la situazione è alquanto differenziata: 1,5% il nord, 3% il Centro e 8,1% il Sud. Valori che sono molto simili ai limiti standard fissati da il MTI-2 per il riconoscimento del : 2,1% per il nord, 3,8% per il centro e 7,1% per il sud.

L’incremento dell’accantonamento a fondo svalutazione crediti dovrebbe trovare la principale motivazione in un incremento dei mancati pagamenti da parte dell’utenza, probabilmente legata all’incremento delle tariffe e alla congiuntura economica; non è tuttavia da escludere che una parte dell’incremento si sia resa possibile proprio dal maggior margine operativo lordo determinato dai provvedimenti tariffari di ARERA rispetto a quelli del Metodo normalizzato.

Tabella 16 – L’accantonamento a Fondo svalutazione crediti, (2007-2016)
Grafico 10 – L’accantonamento a fondo svalutazione crediti (2007-2016)

6 Rendimento del capitale investito: reddito operativo sulle immobilizzazioni, MOL sulle immobilizzazioni, FFO sulle immobilizzazioni

Alla base della capacità di realizzare gli investimenti vi è la capacità della tariffa di generare una componente a copertura dei costi del capitale adeguata a reperire i finanziamenti sul mercato dei capitali. I due elementi della componente tariffaria a copertura del costo del capitale sono il rendimento sul capitale investito e l’ammortamento. Il primo definisce il corrispettivo che si riconosce a chi investe nelle società il fattore produttivo capitale (di debito e azionario), il secondo, il periodo di tempo nel quale si recupera il costo dell’investimento. In questo paragrafo si analizzano tre indicatori legati al rendimento del capitale investito.

È interessante vedere se, e in che modo, la regolazione tariffaria ha influito sui risultati economici e finanziari delle società di gestione e quali differenze possono riscontrarsi tra la metodologia tariffaria del Ministero dell’Ambiente e quella odierna dell’ARERA. Un modo per misurare l’effetto della regolazione tariffaria è quello di individuare una grandezza economica e una grandezza finanziaria che in qualche modo possano riflettere l’impatto della metodologia tariffaria. Mentre per la componente dei costi operativi la differenza tra le due metodologie è più profonda, più semplice è invece il confronto dell’impatto sugli ammortamenti e la remunerazione del capitale investito che in entrambi le metodologie sono fortemente correlate all’ammontare degli investimenti, sebbene con profili temporali diversi.

Per misurare l’impatto delle due metodologie tariffarie su ammortamenti e remunerazione del capitale investito si sono individuate due grandezze facilmente calcolabili con i dati dei bilanci: il margine operativo lordo (EBITDA) e il flusso di cassa operativo (FFO). Il primo per misurare l’impatto sul conto economico, il secondo per misurare l’impatto sui flussi di cassa disponibili. Per rendere confrontabili fra loro i diversi gestori si sono rapportate entrambe le grandezze al valore delle immobilizzazioni, ottenendo così un valore unitario. Con l’avvertenza che le diverse decisioni che le società hanno preso per contabilizzare il FoNI[xvi], quella di lasciarlo nei ricavi o viceversa quello di contabilizzarlo a risconti passivi (in analogia ai contributi a fondo perduto sugli investimenti), possono rendere disomogeneo il confronto.

6.1 Il reddito operativo rispetto alle immobilizzazioni

Il rendimento del capitale investito è uno dei temi più importanti per assicurare il finanziamento degli investimenti.

Dall’analisi dei bilanci è stato possibile rappresentare l’andamento del rendimento del capitale investito (ROI), espresso come il rapporto fra il Risultato Operativo e il Capitale investito. Questa grandezza è quella utilizzata dal regolatore per assicurare la finanziabilità degli investimenti[xvii]. Il metodo tariffario, in analogia alle metodologie standard del costo del capitale, definisce il rendimento del capitale investito attraverso le grandezze degli oneri finanziari, degli oneri fiscali e dell’inflazione[xviii].

Considerando che la nuova metodologia tariffaria si è inserita a partire dal 2012 ( (AEEG, 2012), (AEEGSI, 2013) (AEEGSI, 2015)), possiamo affermare che il calcolo di questo indicatore sembra risentire positivamente, per quasi tutte le società, dei nuovi provvedimenti. Il rendimento del capitale investito del campione nel 2016 è stato del 9,1% contro il 3,7% del 2007 (Tabella 17). Il rendimento più elevato per dimensione del fatturato è quello delle imprese medie con l’11,0% (2016). Nelle classificazione per forme di gestione, il rendimento maggiore è quello delle imprese miste con il 13,4% (2016).

Il rendimento medio del campione del periodo dell’MTI è del 6,5% con un incremento del 31% rispetto alla media del periodo precedente (4,9%). Il MTI ha assicurato un incremento del rendimento per tutte le categorie con valori che vanno dal +26% a +60%.

Il rendimento del capitale investito così come si presenta nei bilanci del campione assume valori che vanno da un minimo del 7,5% (le società pubbliche) ad un massimo del 13,4% (delle società miste). Rendimenti tutti superiori a quelli che nominalmente caratterizzavano la metodologia tariffaria precedente. Con MTI il rendimento si è incrementato del 72% contro il 42% del periodo precedente.

Tabella 17 – Il rendimento del capitale investito (Risultato Operativo/Immobilizzazioni), 2007-2016
Grafico 11 – Rendimento del capitale investito del campione, per classe di dimensione e per forma di gestione (2007-2016), valori percentuali

6.2 Una misura del rendimento del capitale investito nei provvedimenti tariffari

Abbiamo visto che il rendimento del capitale investito del campione è consistentemente aumentato. Nel 2016 il rendimento medio del campione è pari a 9,1%. Vediamo ora qual è il rendimento del capitale investito definito nell’MTI-2, per poi confrontarlo con quello del campione e comprenderne le differenze alla luce di quanto abbiamo analizzato nel paragrafo 1.2.

A parte le differenze di notazione fra MTT/MTI e MTI-2 che si sostanziano nel passaggio da una componente BTP a dieci anni (MTT/MTI) ai  (Tasso risk free real) e WRP (Water Utility Risk Premium), il calcolo del rendimento del capitale investito include gli OF (oneri finanziari del gestore), la maggiorazione degli OF attraverso un onere finanziario (time lag) pari all’1% e gli OFisc (l’onere fiscale del gestore). La determinazione del valore di questi parametri discende direttamente dal provvedimento ed è stata ricostruita prima nella Tabella 43 e poi sintetizzata nella Tabella 18.

Tabella 18 – Rendimento del capitale investito nei provvedimenti tariffari di ARERA, 2012-2019

Come si vede il tasso di rendimento del capitale investito nei provvedimenti che si sono succeduti, è passato dal 6,4% di MTT, al 7,06% di MTI, per arrivare al 6,39% di MTI-2 (2016-17) e al 6,28% di MTI-2 (2018-19).  Questo è il tasso reale che, come abbiamo visto, viene applicato su un valore inflazionato dei cespiti per arrivare al rendimento monetario sul capitale investito.

È evidente che, in media, il rendimento misurato dei gestori è stato sempre inferiore a quello tariffario nel periodo del Metodo normalizzato, mentre è cresciuto con i Metodi ARERA fino ad essere consistentemente maggiore negli ultimi anni.

Al fine di spiegare tale differenza, abbiamo provato a sommare, ai tassi di rendimento riconosciuti dalla regolazione, il rendimento implicito nella componente tariffaria a copertura dei costi di morosità. Ciò in quanto in alcune delle principali esperienze di regolazione all’estero tale componente è considerata all’interno del premio di rischio settoriale.

Visto che i  (la componente a copertura del costo di morosità) non trovano una piena corrispondenza nei costi di bilancio, e nonostante l’incremento registrato nell’accantonamento a fondo svalutazione crediti, si può, infatti, assumere che per alcuni gestori tale componente tariffaria sia premiante rispetto al costo effettivamente sostenuto. Pertanto, abbiamo ipotizzato di aggiungerli al rendimento del capitale investito riconosciuto dalla regolazione, per determinarne il valore complessivo.

Per aggiungere al rendimento del capitale investito questa componente, che è espressa come percentuale sul fatturato, abbiamo calcolato il valore medio  del rapporto fra il fatturato e le immobilizzazioni (  del campione, che abbiamo così utilizzato per trasformare la percentuale della morosità sul fatturato in valore percentuale della morosità sulle immobilizzazioni , ottenendo così il un saggio percentuale da aggiungere agli OF e agli OFisc per incrementare il rendimento sul capitale investito riconosciuto dalla regolazione tariffaria.

Nella Tabella 19 sono riportati i valori dei tassi di morosità sul fatturato per calcolare i . Questi valori sono stati pesati per il valore medio del fatturato sulle immobilizzazioni che nel campione assume il valore medio di 0,46 (Tabella 20). I valori del tasso di morosità sono stati quindi moltiplicati per 0,46 per ottenere il tasso di morosità espresso come ulteriore rendimento da applicare sulle immobilizzazioni (Tabella 21).

Tabella 19 – Tasso di morosità da applicare sul fatturato nei COMor
Tabella 20 – Il valore medio del rapporto fra Fatturato e immobilizzazioni del campione (2007-2016)
Tabella 21 Tasso di morosità espresso come percentuale da applicare sulle immobilizzazioni (Tassi morosità x 0,46)

In questo modo abbiamo potuto sommare al rendimento degli OF e degli OFisc quello dei   trasformati in rendimento con il risultato finale che è quello rappresentato nella Tabella 22 dove i rendimenti sono quindi articolati per ripartizione geografica. E dove nel MTI-2 (2016-2017) il tasso di rendimento del capitale investito diventa il 7,35% per il Nord, l’8,13% per il Centro e il 9,65% per il Sud.

Tabella 22 – Rendimento del capitale investito effettivo sommando il recupero della morositàquesto modo abbiamo provato a mettere a confronto questi rendimenti con quelli effettivi che risultano dal campione. Nel campione sono state raggruppate le imprese per area geografica in modo da consentire il confronto sempre per area con i tassi di rendimento di MTI-2. Il risultato è quello rappresentato nella Tabella 23.
Tabella 23 – Il rendimento del capitale investito nei provvedimenti tariffarie e nel campione

Il rendimento medio del campione, per tutta la durata del Metodo Normalizzato (2007-2011) è inferiore alla remunerazione prevista in quel periodo (7%). Anche nel 2012 il rendimento medio del campione è inferiore (4,8%) a quello previsto dal MTT (6,4%). Negli anni successivi, però, il rendimento medio del campione cresce fino a superare abbondantemente nel 2016 (9,1%) il rendimento previsto dall’MTI-2 (6,4%). Il rendimento medio del campione è superiore anche quando al rendimento formale del MTI-2 si aggiunga il valore medio della morosità espressa in percentuale delle immobilizzazioni (8,9%) (Grafico 12).

Grafico 12 – Il rendimento del capitale investito medio del campione e le previsioni tariffarie

Si può concludere che, in media, i rendimenti sul capitale investito si sono attestati negli ultimi anni su valori maggiori rispetto a quanto riconosciuto dalla regolazione, nonostante le società, nello stesso periodo, avessero incrementato in modo consistente l’accantonamento al fondo svalutazione crediti. Tali aumenti dei rendimenti restano, quindi, da comprendere a fondo e potrebbero derivare da efficienze ottenute sul fronte dei costi operativi, che in questa sede non è possibile esaminare, o anche all’effetto premiante dell’inflazione riconosciuta dai metodi tariffari ARERA, che come detto nel paragrafo 5 è stata superiore all’inflazione effettiva.

Se si passa, però, a valutare il rendimento del campione per ripartizione geografica si può osservare una situazione differenziata. Il valore medio del campione delle imprese del Nord rimane inferiore sia ai rendimenti previsti dal MN che dal MTI fino al 2012, per poi superarli abbondantemente dal 2013 al 2016 (9,2% contro 6,4% del MTI-2 del 2016). Il rendimento medio del campione del Nord rimane superiore anche qualora si incrementi il rendimento tariffario con l’effetto morosità del Nord (7,6%) (Grafico 13).

 

Grafico 13 – Il RCI medio del campione delle imprese del Nord e le previsioni tariffarie

Diversa la situazione che si presenta nel campione delle imprese del Centro Italia. Per questo gruppo di imprese il rendimento medio effettivo è stato quasi sempre superiore a quello delle previsioni tariffarie, sia nel periodo del MN che del MT. In particolare il rendimento del campione delle imprese del Centro è già circa l’8% nel 2012 e arriva al 9,5% nel 2016, con una punta del 10,2% del 2015. Tutti valori assai superiori a quelli previsti dalla metodologia tariffaria (6,4% nel 2016) che a quelli corretti con l’effetto morosità delle imprese del Centro (8,6% nel 2016) (Grafico 14).

Grafico 14 – Il RCI medio del campione delle imprese del Centro e le previsioni tariffarie

Un rendimento medio sempre inferiore a quello previsto dalle metodologie tariffarie è quello che sembra invece caratterizzare le imprese del Sud. Frequentemente il rendimento misurato è addirittura negativo durante il periodo di valenza del Metodo Normalizzato. Ritorna positivo ma al di sotto del rendimento previsto nella metodologia tariffaria, con eccezione del 2016 (7,9%), anno nel quale il rendimento misurato supera quello dell’AREA (6,4%) ma rimane inferiore a quello corretto con l’effetto morosità (10,5%).

Grafico 15 – Il RCI medio del campione delle imprese del Sud e le previsioni tariffarie

6.3 Il Margine Operativo Lordo (MOL) sulle immobilizzazioni

Un altro modo per misurare la ricaduta del MTI sulla redditività è quello di rapportare il Margine Operativo Lordo (MOL) sulle immobilizzazioni. La regolazione del MTI va incidere infatti non solo sulla remunerazione del capitale ma anche sull’ammortamento. Il MOL ci permette di misurare l’impatto della regolazione tariffaria sia sulla remunerazione che su gli ammortamenti. Rapportando il MOL alle immobilizzazioni si ottiene un valore unitario che ci permette di effettuare un confronto fra le imprese.

l MOL unitario medio del campione nel 2016 è 18,1% delle immobilizzazioni, e presenta un incremento del 59% rispetto a quello 2007 (11,4%) (Tabella 24). Fra le società classificate per dimensione, sono le imprese Grandi a presentare il MOL sulle immobilizzazioni più elevato con il 22,1% (2016). Mentre per la classificazione per forme di gestione il maggior valore dell’indice lo presentano le società miste con il 24,2% (2016). Il valore medio del MOL unitario del periodo del MTI è del 16,4% con un incremento rispetto alla MOL medio del periodo precedente del 19,3%. Anche in questo caso l’effetto del MTI è positivo per tutte le categorie e l’incremento rispetto al periodo precedente varia far un +53% per le imprese piccole a un 2,8% per le imprese medie. L’incremento dell’indice dal 2007 al 2016 è stato del 59% di cui il 31% si riferisce al periodo di vigenza del MTI (2012-2016).

L’andamento del MOL rispetto alle immobilizzazioni conferma il dato del rendimento del capitale investito

Tabella 24 – Rendimento del capitale investito, l’aspetto economico (MOL/Immobilizzazioni), 2007-2016
Grafico 16 – MOL/immobilizzazioni (2007-2016), valori percentuali

6.4 FFO sulle immobilizzazioni

Se il MOL rispetto alle immobilizzazioni misura l’impatto economico del MTI, i flussi di cassa della gestione operativa (FFO) rispetto alle immobilizzazioni ne misurano l’impatto finanziario. Nel calcolo dell’FFO entrano tuttavia anche altri fattori più propriamente legati alle prestazioni della società che non alla metodologia tariffaria, in particolare le variazioni del capitale circolante (pagamenti fornitori e riscossione utenti).

L’FFO rispetto alle immobilizzazioni del campione al 2016 è pari al 14,5% con un incremento del 117% rispetto a quello del 2007 (6,7%) (Tabella 25). Il valore più elevato nella classificazione per dimensione è quello delle imprese grandi con il 23,9% (2016). Rispetto alle forme di gestione sono le società miste quelle ad avere l’indicatore più elevato con 27,1% (2016).

Il valore dell’FFO unitario del periodo del MTI è pari al 14,6% con un incremento del 61,4% rispetto al periodo precedente (9,0%). Durante il periodo del MTI lo FFO unitario aumenta per tutte le categorie .

L’incremento dell’indice dal 2007 al 2016 è stato del 117% di cui solo il 26% si riferisce al periodo di vigenza del MTI (2012-2016). In questo caso il MTI ha migliorato il valore dell’indice ma con un incremento inferiore rispetto al periodo tariffario precedente.

Tabella 25 – Rendimento del capitale investito, l’aspetto finanziario (FFO/Immobilizzazioni), 2008-2016
Grafico 17 – FFO/Immobilizzazioni del campione, per classi di dimensione e per forma di gestione (2008-2016), valori percentuali

In tutti e tre gli indicatori, l’introduzione del MTI ha avuto un effetto positivo rispetto al periodo tariffario precedente. Il ROI è aumentato del 31%, con valori che vallo dal 28 e il 60% a seconda del raggruppamento. Lo stesso vale per il MOL sulle immobilizzazione che aumenta del 17% rispetto al periodo precedente, con variazioni fra il 2 e il 32%. Così come per l’FFO che presenta un incremento del 14% e variazioni fra il 10 e il 20%.

7 Il Capitale sociale, le riserve, il patrimonio netto e gli utili distribuiti

Le società, come abbiamo visto, hanno realizzato in questo dieci anni un importante volume d’investimenti, anche se inferiore a quelli dei paesi con i quali abbiamo fatto il raffronto. Con quali mezzi le società hanno realizzato questo volume d’investimenti? con quale capitalizzazione? quanto hanno ricorso all’indebitamento? Vediamo attraverso l’utilizzo dei dati dei bilanci in quale modo possiamo rispondere a questi interrogativi.

La prima considerazione riguarda le imprese e la loro capacità di generare utili. Nel periodo osservato è avvenuta una trasformazione particolarmente rilevante. Le imprese in perdita sono passate da 14 a 2 sole unità (Tabella 26). L’inversione di tendenza è anche questa volta riconducibile al 2012 e all’introduzione della nuova metodologia tariffaria.

Tabella 26 – Imprese in utile e imprese in perdita, 2007-2016
Grafico 18 – Imprese in utile e imprese in perdita (2007-2016)

Il cambiamento più evidente riguarda le imprese Piccole che vedevano prevalere le imprese in perdita e che presentano un netto miglioramento negli anni successivi al 2012 fino a portare a due sole unita le imprese in perdita nel 2016.

Grafico 19 – Imprese in utile e imprese in perdita per dimensione (2007-2016)

Dall’altro lato, in questo decennio le imprese del campione hanno prodotto utili per 1,960 mld. Questa redditività ha dato un contributo consistente alla capitalizzazione delle società. Il Patrimonio netto delle imprese è passato da 2,860 a 5,160 mld, con un incremento di 2,300 mld, pari all’80% (Tabella 27).

L’incremento del Patrimonio netto è legato anche ad aumenti di capitale sociale (0,893 mld), a rivalutazioni (0,100 mld), all’incremento delle riserve (1,307 mld), quest’ultimo legato alla presenza e alla destinazione di utili d’esercizio. Se dal totale degli utili generati nel periodo (1,960 mld) si sottraggono gli incrementi delle riserve (1,307 mld) si ottiene una stima degli utili distribuiti (0,653 mld). Se al valore del Patrimonio netto del 2016 si sommano anche la stima degli utili distribuiti nel periodo il valore passa  a 5,813 mld con un incremento di 2,953 mld, ovvero un incremento superiore al 100%. In questi dieci anni (2007-2016) le società hanno avuto una redditività tale da generare risorse pari al 67% del Patrimonio netto iniziale del 2007 (1,960 su 2,860 mld).

Un ulteriore aspetto dell’evoluzione del Patrimonio netto è il suo tasso di crescita. Come si può osservare, i volumi degli utili e degli utili a riserva hanno avuto una forte accelerazione a partire dal 2012/13 in poi. L’accelerazione trova una spiegazione sia nella forma del sistema tariffario che remunera il capitale investito e quindi il peso dell’utile è proporzionale al volume degli investimenti realizzati, sia nell’ammontare del tasso di remunerazione.

Tabella 27 – Composizione del Patrimonio Netto, 2007-2016, (mld di euro)
Grafico 20 – Il Patrimonio Netto del campione (2007-2016), miliardi di euro
Grafico 21 – La composizione dell’incremento del Patrimonio Netto (2007-2016)

Gli incrementi delle riserve rispetto agli investimenti annui variano dal 7% al 29% del 2016, ovvero la capacità di autofinanziamento realizzata attraverso la destinazione degli utili a riserva, passa da 66 mln (7%) a 396 mln (29%), coprendo quasi un terzo degli investimenti annui nel 2016 (Tabella 28 e Tabella 29).

Tabella 28 – Investimenti annui e valore delle riserve, 2008-2016, (mld di euro)
Tabella 29 – Valore delle riserve in percentuale sugli investimenti annui, 2008-2016

Grafico 22 – L’incremento delle riserve e l’andamento degli investimenti (2008-2016). Miliardi di euro

8 Gli indici patrimoniali: Patrimonio netto/immobilizzazioni, (patrimonio netto + passività a medio e lungo periodo)/immobilizzazioni), Debiti finanziari/Patrimonio netto

Le imprese del campione, sia pure con differente intensità, hanno realizzato un importante volume d’investimenti nei servizi idrici. Vediamo ora, attraverso una serie di strumenti analitici, come le stesse imprese hanno finanziato questi investimenti. Il primo strumento che utilizziamo è quello degli indici patrimoniali. Vedremo successivamente altri indici, quelli utilizzati dall’OFWAT, il regolatore dei servizi idrici per l’Inghilterra e il Galles.

Gli indici patrimoniali utilizzati sono quelli che si riferiscono al finanziamento degli investimenti e comprendono il grado di copertura dell’attivo fisso con il patrimonio netto e l’indice di copertura delle immobilizzazioni . Entrambi gli indici danno la misura dell’adeguatezza delle fonti di finanziamento rispetto agli investimenti. “Un primo concetto molto importante è quello dell’auto copertura del capitale fisso, cioè la congruità del capitale di rischio rispetto al patrimonio di beni durevoli. Infatti, poiché la gestione del patrimonio di beni durevoli di un impresa genera reddito solo in tempi lunghi, quali sono quelli della vita utile del patrimonio stesso, e per di più con un’entità che per definizione è soggetta a rischio, è fondamentale che le fonti finanziarie impiegate per la realizzazione di tale patrimonio siano il più possibile svincolate da obblighi di rimborso delle stesse fonti finanziarie[xix]. Per quantificare questo concetto si usa definire margine di struttura la differenza fra i mezzi propri [Patrimonio Netto] e gli impieghi fissi [Immobilizzazioni Nette], cioè il patrimonio durevole, ovvero l’attivo immobilizzato. ..Si definisce indice di copertura delle immobilizzazioni, o di copertura del capitale fisso o net worth to fixed ratio, il rapporto tra i mezzi propri e impieghi fissi” (Gallo, 2001, p. 95).

8.1 Il grado di copertura dell’attivo fisso (Patrimonio netto/immobilizzazioni)

Il primo indice (Grado di copertura dell’Attivo Fisso con il Patrimonio Netto) presenta un valore medio del campione pari a 0,58 (2016) e un andamento crescente, sia pure non in modo costante, per tutto il periodo (+17%.dal 2007 al 2016). Nel raggruppamento per dimensione, il maggior grado di capitalizzazione è quello delle società Piccole con un indice pari 0,85 (2016). Per quanto riguarda le forme di gestione, le società pubbliche presentano un grado di capitalizzazione pari a 0,64 (2016), più elevato rispetto a quello delle società miste 0,43 (2016).

La capitalizzazione delle imprese del campione nel periodo tariffario di MTI è cresciuto per il campione (8,6%) e per quasi tutti i raggruppamenti, con variazioni che oscillano fra il 4,7% e il 24,9% . Solo le imprese Medio piccole vedono diminuire il grado di capitalizzazione fra i due periodi tariffari (-13,7%) (Tabella 30).

Tabella 30 – Indici patrimoniali: Grado di copertura dell’attivo fisso (Patrimonio Netto/Immobilizzazioni), 2007-2016
Grafico 23 – Il grado di copertura delle immobilizzazioni (2007-2016)

8.2 L’indice di copertura delle immobilizzazioni (patrimonio netto + passività a medio e lungo periodo)

Qualora il margini di struttura sia negativo, significa che una parte degli impieghi fissi è finanziata con il capitale di terzi. In questo caso è opportuno distinguere all’interno di questi tra finanziamento con debiti consolidati o passivo a media/lunga scadenza (Pasml)  e finanziamento con debiti correnti o passivo a breve, perché – essendo lunga la vita utile del patrimonio immobilizzato – è corretto che nel finanziamento degli investimenti fissi, accanto ai mezzi propri, siano impiegati anche i capitali di terzi, purché consolidati (ovvero debiti a media/lunga scadenza). L’indice dovrebbe assumere un valore superiore all’unità perché la struttura dell’impresa possa essere considerata finanziariamente equilibrata” (Gallo, 2001, p. 96)[xx].

Questo secondo indice – Indice di copertura delle immobilizzazioni  – presenta un andamento quasi costante nel tempo intorno all’unità.

Il valore del campione è paria 1,00 (2016) (Tabella 31). Nel raggruppamento per dimensione l’indice di copertura delle immobilizzazioni più elevato è quello delle società Piccole con 1,22 (2016). Nel raggruppamento per forme di gestione le società pubbliche presentano un indice pari a 1,10 (2016), superiore a quello delle società miste con lo 0,75 (2016). Il valore del indice di copertura durante il periodo di MTI diminuisce in quasi tutti i raggruppamenti, probabilmente in ragione del volume degli investimenti realizzati. Solo nel caso delle imprese Grandi l’indice aumenta del 7%.

Tabella 31 – Indici patrimoniali: Indice di copertura delle immobilizzazioni(Patrimonio Netto + Passività a medio lungo periodo)/ Immobilizzazioni, 2007-2016

Tuttavia se usciamo dal valore medio e andiamo a classificare le imprese secondo classi di valore dell’indice, vediamo che solo 15 imprese del campione nel 2016 presentano un indice di copertura superiore ad 1 e 20 con un valore compreso fra 0,75 e 1 (2016) (Tabella 32). Quasi un 30% del campione ha un valore dell’indice di copertura compreso fra 0,5 e 0 (2016).

Tabella 32 – Indici patrimoniali: Indice di copertura delle immobilizzazioni(Patrimonio Netto + Passività a medio lungo periodo)/ Immobilizzazioni, numero imprese per classe di valore dell’indice, 2007-2016
Grafico 24 – L’indice di copertura delle immobilizzazioni (2007-2016)

8.3 L’autonomia finanziaria: i debiti finanziari rispetto al Patrimonio netto

Che l’impresa sia dotata di sufficienti mezzi propri in rapporto ai mezzi di terzi assume un importanza strategica indipendentemente da comparazioni con l’attivo. Una buona dotazione di capitali di rischio costituisce da una parte una garanzia rispetto ai rischi del mercato finanziario e dall’altra un contenimento dell’onerosità dei mezzi di terzi rispetto alla redditività. Un indice che misura l’autonomia finanziaria è costituito dal rapporto fra i mezzi finanziari di terzi e il Patrimonio netto. Il valore dell’indice dovrebbe essere inferiore o uguale all’unità, perché è bene che le fonti finanziarie in un’impresa siano per almeno metà di rischio e per non più di metà di prestito” (Gallo, 2001, p. 96-97).

Il valore del campione è pari 0,81 con una diminuzione nel periodo del 28% (Tabella 33). L’indicatore è superiore all’unita nel 2007 (1,12) per poi crescere con un picco nel 2012 e poi riscendere fino a 0,81. La variazione 2007/2016 è negativa per tutte le classificazioni, con l’eccezione delle imprese medio-piccole. Nella classificazione per dimensione il valore più piccolo dell’indicatore è quello delle imprese Grandi con 0,43 (2016), mentre la situazione più critica è quella delle imprese Medio piccole con 1,32 (2016). Nel raggruppamento per forma di gestione le società pubbliche con lo 0,55 (2016) presentano un minor indebitamento rispetto alle società miste con lo 0,91 (2016). Nel periodo di MTI l’indice di autonomia finanziaria migliora sostanzialmente per tutte le classificazioni nonostante la crescita degli investimenti.

Tabella 33 – Gli indici patrimoniali: Debiti Finanziari/Patrimonio Netto, 2007-2016
Grafico 25 – Debiti finanziari rispetto al Patrimonio Netto

Guardando i dati e i grafici è possibile notare che nel corso del periodo osservato, mentre si sono realizzati un volume significativo di investimenti, l’indice di indebitamento non solo non è cresciuto ma addirittura è diminuito in maniera consistente. Per la realizzazione degli investimenti ci si sarebbe dovuto aspettare che le imprese si indebitassero, mentre quello che si può osservare è che il peso del debito finanziario rispetto al Patrimonio netto è diminuito. Probabilmente questo è legato alla circostanza che nella seconda parte del periodo (2012-2016) è aumentata la redditività e le imprese hanno portato gran parte di questa redditività al patrimonio netto, capitalizzando così la società e aumentandone la capacità di autofinanziamento.

9 Gli indici finanziari di OFWAT: Adjusted interest cover ratio, FFO/Debt, Net Debt/RAB

OFWAT ha scelto di utilizzare alcuni indicatori per valutare la finanziabilità degli investimenti in rapporto al livello di indebitamento delle società. L’approccio del regolatore inglese alla finanziabilità parte anzitutto dalla definizione del costo del capitale, e quindi ipotizza una struttura teorica del capitale, ovvero una teorica ripartizione delle fonti di finanziamento fra capitale di debito e capitale proprio. Seguendo questa logica, il regolatore definisce un costo sia del capitale di debito che del capitale proprio e arriva così a calcolare il rendimento del capitale investito. In questo modo l’impresa è incentivata ad avere una struttura del capitale più sbilanciata sul capitale di debito perché in questo modo si approprierebbe di un differenziale di costo fra il capitale di debito (remunerato meno) e il capitale proprio (remunerato di più). Tuttavia tale incentivo viene mitigato perché aumentando il capitale di debito si peggiorano gli indicatori finanziari che sono proprio utilizzati dai finanziatori per misurare la capacità dell’impresa di restituire il finanziamento, e quindi si aumenta il costo del debito fin al punto da rischiare di non trovare più finanziatori disponibili ad accollarsi il rischio. Il Regolatore, nel definire il proprio atteggiamento di fronte al tema della finanziabilità, utilizza gran parte degli stessi strumenti a cui ricorre il finanziatore nel valutare il rischio di finanziare l’impresa, in particolare i quozienti finanziari definiti dalle società di rating[xxi]. Questo significa che nel definire la tariffa, il regolatore deve assicurare flussi di cassa adeguati in modo che i quozienti finanziari rimangano all’interno di valori che sono ritenuti investment grade. Il regolatore ha diversi strumenti per raggiungere questo livello nei quozienti finanziari, due influiscono sull’incremento dei flussi di cassa e uno sulla diminuzione del debito[xxii]. Quelli che influiscono sull’incremento dei flussi di cassa sono il riconoscimento di un rendimento maggiore del costo del capitale e il riconoscimento di ammortamenti accelerati. Il terzo fa riferimento ad un aumento del capitale proprio che attraverso la riduzione del debito dovrebbe portar ad un miglioramento dei quozienti finanziari (Figura 6).

Figura 6 – Gli strumenti di regolazione per trattare la finanziabilità

In tutto questo contesto, il livello d’indebitamento raggiunto dalle società nel contesto della regolazione di OFWAT, pur raggiungendo quote molte elevate (un capitale investito finanziato con il debito fra il 75 e l’85%), consente comunque all’imprese di mantenere un rating investment grade e quindi di ottenere i finanziamenti necessari a realizzare gli investimenti (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016).

Fra gli indicatori di OFWAT ne sono stati scelti tre, quelli di più facile costruzione con i dati a disposizione, che misurano la sostenibilità finanziaria intesa come capacità di finanziare gli investimenti, questi indicatori sono:

  • L’Adjusted Interest Cover Ratio ;
  • Il Fund from operations to debt ;
  • Il Gearing, net debt to RAB .

9.1 L’Adjusted Interest Cover Ratio

L’indicatore rapporta i Flussi di cassa della Gestione operativa con gli interessi passivi. Questo indicatore è costituito da un quoziente interpretabile come indicatore del livello di rischio delle passività finanziarie della società e di conseguenza delle condizioni per l’accesso a nuovi finanziamenti. Il quoziente costituisce un indicatore della capacità di “servire” il debito (Canitano, Peruzzi, & Spinicci, 2014, p. 335). Il valore minimo di OFWAT è 1,6, corrispondente all’investment grade del rating (tra 1,5 e 2,5). L’indicatore che è stato calcolato per il campione non comprende la sottrazione dai “Fund From Operation” (FFO) dei dividendi distribuiti, il valore deve essere quindi considerato come approssimato per eccesso. La definizione corretta dell’indicatore qui utilizzato è quindi quella di “Interst cover ratio”.

Il valore del campione di questo indicatore è 14,9 (2016) e ben 35 imprese su 40 hanno un valore dell’indicatore superiore al minimo previsto da OFWAT (1,6) (Tabella 34). Nel periodo osservato l’indicatore è aumentato del 101% passando da 7,4 del 2007 a 14,9 del 2016.  Nella classificazione per dimensione del fatturato il valore più elevato è quello delle imprese Grandi con 36,3, mentre in quella per forma di gestione sono le società miste ad avere il maggior valore dell’indicatore con 20,5 (2016). L’indicatore migliora sostanzialmente nel periodo di MTI. L’incremento maggiore si ha per le Imprese Grandi  (125%) nel raggruppamento per dimensione e nelle società pubbliche (85%) nel raggruppamento per forme di gestione. I valori sono elevati in tutte le classificazioni e di gran lunga superiori a quelli limite di OFWAT.

Tabella 34 – Indici OFWAT: Interest Cover Ratio (Fund From Operation/Net Interst Expense), 2007-2016
Grafico 26 – L’interest cover ratio (2007-2016)

Anche per questo indicatore l’incremento nel periodo sarebbe in contrasto con il volume di investimenti realizzati se non si tenesse conto nell’elevata redditività utilizzata come forma di autofinanziamento.

9.2 Il Fund From Operation to Debt

Il Fund From Operation to Debt è il rapporto fra il flussi di cassa della gestione operativa e il debito netto. Questo quoziente è uno dei più comunemente utilizzati come misura della leva finanziaria dinamica. Questo indicatore, insieme al precedente (Adjusted Interest Cover Ratio), aiuta a comprendere quanto più o meno facilmente l’impresa possa rimborsare il proprio debito. Il Valore minimo di OFWAT (0,13) corrisponde al livello minimo di investment grade delle società di rating (Canitano, Peruzzi, & Spinicci, 2014, p. 337).

Il valore dell’indice del campione è 0,6 (2016) (Tabella 35). Di gran lunga al di sopra di quella che OFWAT ritiene sia la soglia minima (0,13). Hanno un valore dell’indicatore inferiore a quello massimo di OFWAT 36 società su 48 (2016). Se guardiamo l’evoluzione temporale di questo indice possiamo vedere che nei primi anni del periodo il suo valore fosse al disotto della soglia minima di OFWAT. Non solo ma all’interno del raggruppamento per dimensione del fatturato sia le imprese Piccole, quelle Medio Piccole che quelle medie, in più anni, anche recenti, presentano un valore di questo indice al di sotto del valore limite fissato da OFWAT. Le società pubbliche presentano un valore di 0,66 (2016) maggiore di quello delle società miste pari a 0,31 (2016). Nell’ultimo anno (2016) tutti i raggruppamenti presentano un valore superiore al limite di OFWAT, fatta eccezione per le imprese Medie (-0,14). La media del periodo di MTI del campione è aumentata del 230%. Anche in tutti e due i raggruppamenti la media di MTI è superiore al quella del periodo precedente, con la sola eccezione delle società miste.

Tabella 35 – Indici OFWAT: Fund From Operation/Debt
Grafico 27 – Il Fund From Operation/Debt

Anche in questo caso l’indice cresce, mentre ci si dovrebbe aspettare che in presenza di un crescente volume degli investimenti, il debito crescesse di più dei flussi di cassa, mentre nel nostro caso il debito cresce meno che proporzionalmente rispetto agli investimenti grazie all’incremento dell’autofinanziamento.

9.3 Il Net Debt to RAB

Questo indicatore è costituito dal rapporto tra debito netto e capitale investito regolato e proviene anch’esso dalle metodologie di valutazione del rating. Questo indicatore è designato a misurare la leva finanziaria come proporzione del capitale investito, sulla quale alla società è consentito di ottenere un rendimento. Il capitale investito così può essere letto anche come valore attuale netto dei futuri flussi di cassa potenziali. Anche in questo caso il valore massimo del debito rispetto al capitale investito di OFWAT (0,65) è molto simile a quello che le società di rating considerano il limiti di ciò che investment grade (tra il 55% e il 70%).

Il valore dell’indicatore del campione è 0,41 che è inferiore a quello ritenuto il limite massimo dell’investment grade di OFWAT (<0,65) (Tabella 36). Ben 41 società presentano un valore inferiore a quello definito da OFWAT come investment grade. Nel raggruppamento per dimensione l’indice migliore è quello delle imprese Piccole con 0,20 (2016), mentre il peggiore è quello delle imprese Medie che presentano un indice superiore (0,77) a limite previsto da OFWAT. Nel raggruppamento per forme di gestione le società pubbliche hanno un indice di 0,32 (2016), mentre le società miste superano, sia pure di poco, il limite con 0,62. Nel periodo MTI la situazione migliora per tutti i raggruppamenti con diminuzioni che vanno dal -9% a -30,6%.

Anche per questo indicatore valgono le considerazioni fatte precedentemente, nel senso che l’introduzione del MTI ha consentito un autofinanziamento tale che seppure in presenza di una crescita degli investimenti, l’indebitamento rispetto alle immobilizzazioni non è cresciuto, anzi è diminuito.

Tabella 36 – Indici OFWAT: Net Debt/RAB, 2007-2016
Grafico 28 – Il Net Debt/RAB

10 L’intensità del capitale: Immobilizzazioni/Fatturato, vita utile delle infrastrutture e ammortamenti

Prima di analizzare l’andamento degli ammortamenti è utile fornire un ulteriore elemento del contesto che caratterizza il settore dei servizi idrici e che attribuisce agli stessi ammortamenti un ruolo diverso rispetto ad altri settori industriali.

Infatti, ciò che caratterizza il settore dei servizi idrici rispetto ad altri settori è quello di essere un’industria ad alta intensità di capitale. Per dare un idea di questo aspetto è sufficiente rapportare il valore delle immobilizzazioni al fatturato di queste industria e confrontarlo con quello di altri settori. Alcuni autori (Kahn, 1988) forniscono dati di confronto come quelli rappresentati nella Tabella 37. In un lavoro più recente (Committee on privatization of water services in the United States, 2002), si afferma che l’investimento per unità di ricavo nel settore idrico sia pari a 3,5, rispetto ad 1,5 circa per il settore elettrico e quello delle telecomunicazioni, e ad appena 1,24 per il gas.

Tabella 37 – capitale investito/ricavi in alcuni settori industriali

Questa caratteristica, insieme alla lunga vita utile dei cespiti, ci spinge a immaginare che il recupero degli investimenti in questo settore sia un aspetto non trascurabile se espresso come componente della tariffa, ovvero come componente della spesa per utente. Le politiche tariffarie del regolatore devono quindi tener conto che ogni concessione ai flussi di cassa per favorire il finanziamento degli investimenti corrisponde un “impatto” sulla tariffa e sulla spesa annua degli utenti del servizio.

10.1 Immobilizzazioni/fatturato

Il valore dell’indice del campione nel 2016 è pari a 2,1, un valore elevato ma inferiore quello riportato dalla letteratura (Tabella 38). Questo può in parte derivare dalla circostanza che alcune di queste imprese non hanno nel proprio patrimonio (cespiti) una parte consistente delle infrastrutture che utilizzano per la gestione del servizio. Si tratta di quelle imprese che nascono con un nuovo affidamento del servizio idrico e ricevono in quel momento una parte delle infrastrutture nella forma di concessione d’uso gratuita. In questo caso non troviamo nei valori delle immobilizzazioni queste infrastrutture che comunque sono essenziali alla gestione del servizio e che in parte vengono spesate dalla tariffa attraverso il FoNI oppure il rimborso delle rate di mutuo che i gestori preesistenti hanno contratto per finanziare la realizzazione delle stesse infrastrutture.

Nel raggruppamento per dimensione il valore più elevato dell’indice è quello delle imprese piccole con 2,4. Nel raggruppamento per forma di gestione del fatturato il valore più elevato è quello delle società pubbliche con 2, 3. Il MTI non sembra aver avuto un ruolo particolare rispetto alle variazioni di questo indice se non nel caso delle imprese medie (45,7) e in senso inverso per le imprese piccole (-9,7%).

Tabella 38 – Indice di intensità del capitale (Immobilizzazioni/valore della produzione), 2007-2016
Grafico 29 – Indice di intensità del capitale (Immobilizzazioni/Valore della produzione)

10.2 La vita utile delle infrastrutture e degli impianti

La vita utile media del patrimonio tecnico è in certa misura caratteristica del tipo di lavorazione svolta da ciascuna impresa, perché dipende dalla vita utile e dall’importanza relativa degli impianti di produzione, dei fabbricati ecc.. La vita utile del patrimonio tecnico di ciascun settore industriale in Italia, salvo poche eccezioni, non cambia granché. Ciò dipende dal fatto che ha natura strutturale e, quindi, non è soggetto a oscillazioni congiunturali. I settori industriali con minor vita utile media del patrimonio tecnico sono quelli a maggior innovazione tecnologica (elettronico, farmaceutico) mentre il contrario avviene per i settori tecnologicamente più maturi (moli e pastifici, prodotti per l’edilizia, tessile cotoniero, trasporti). Ciò dipende dal fatto che la maggiore o minore evoluzione tecnologica di un’industria introduce un rischio di superamento tecnologico e/o obsolescenza maggiore o minore e, dunque, impone alle imprese che vi operano d’ammortizzare cespiti in un numero di anni rispettivamente minore o maggiore (Gallo, 2001, p. 6-8) (Tabella 39).

Tabella 39 – Vita utile media del patrimonio tecnico in numero di anni di alcuni settori industriali in Italia

I grandi volumi d’investimenti sono un elemento che caratterizza l’industria dei servizi idrici, per questo il tema dei finanziamenti e del tempo di rientro dell’investimento assumono una particolare importanza. Un modo per rappresentare l’adeguatezza delle infrastrutture è quella di rappresentarne la vita utile media attraverso il rapporto fra le immobilizzazioni e gli ammortamenti. Essendo questo settore caratterizzato da elevata intensità di capitale e dalla lunga durata della vita utile delle infrastrutture, e da una gestione caratterizzata da assenza di concorrenza, ci dovremmo aspettare un valore elevato di questo indice.

La vita media utile delle infrastrutture del campione è pari 15,6 anni (2016) (Tabella 40). Un valore che negli ultimi anni è diminuito rispetto al valore massimo del 2009. Nella ripartizione per dimensione del fatturato le imprese medio piccole presentano una vita utile di 18,2 maggiore di quella del campione. Nel raggruppamento per forme di gestione le società pubbliche hanno infrastrutture con una vita utile di 16,2 anni maggiore di quelle delle società miste pari a 13,9 anni.

Questo significa che pur in presenza di un incremento consistente degli investimenti gli ammortamenti sono stati maggiori che nel passato diminuendo così la vita utile delle infrastrutture di circa 1,5 anni. Il periodo del MTI presenta infatti una diminuzione della vita media utile per tutti i raggruppamenti. Si tratta di differenze che in parte potrebbero essere legate all’introduzione degli ammortamenti finanziari anche nei bilanci delle società.

Tabella 40 – Vita media utile delle infrastrutture delle società del campione, 2008-2016 (anni)
Grafico 30 – Vita media utile delle infrastrutture delle società, campione, per classi di dimensione e per forma di gestione, 2008-2016 (anni)

10.3 Il valore degli ammortamenti sulle immobilizzazioni

Il valore degli ammortamenti rispetto alle immobilizzazione è l’immagine speculare della vita utile delle infrastrutture. Maggiore è il valore degli ammortamenti, minore è la vita utile delle infrastrutture. Nel settore dei servizi idrici anche la regolazione tariffaria può influire sulla politica degli ammortamenti. Come abbiamo già visto, la regolazione tariffaria può utilizzare gli ammortamenti per incrementare i flussi di cassa attraverso l’introduzione nel calcolo tariffario oltre che di ammortamenti tecnici anche di ammortamenti anticipati e di ammortamenti finanziari. Non sempre queste politiche tariffarie si riversano sui bilanci delle società, che possono sia adeguare gli ammortamenti a quelli contenuti nel provvedimento tariffario (ammortamento del terminal value) che utilizzare ammortamenti tecnici con conseguenze non indifferenti sul conto economico a seconda del periodo a cui ci si riferisce[xxiii].

Il valore degli ammortamenti del campione è pari al 7,7% (2016) (Tabella 41). Se si guarda all’evoluzione temporale, il valore degli ammortamenti sono passati dal 5,6% del 2007, al 7,7% del 2016 con un incremento del 33%. Il valore più elevato degli ammortamenti nella classificazione per dimensione è quella delle imprese piccole con l’8,7%. Nella ripartizione per forme di gestione le società miste hanno un valore dell’ammortamento pari all’8,9% (2016) contro il 7,2% (2016) delle società pubbliche.

Durante il periodo di applicazione del MTI, gli ammortamenti si sono incrementati del 13% nel campione e per valori che vanno dal 7% al 20% in tutti i raggruppamenti.

Tabella 41 – Il valore degli ammortamenti rispetto alle immobilizzazioni, 2007-2016
Grafico 31 – Il valore degli ammortamenti rispetto alle immobilizzazioni

11Considerazioni conclusive

L’analisi dei cinquanta bilanci per i dieci anni che vanno dal 2006 al 2016 ci ha permesso di sviluppare alcune considerazioni che riguardano l’andamento delle grandezze principali nel tempo e in particolare ci ha permesso di verificare l’impatto che l’evoluzione delle metodologie tariffarie può aver avuto sull’andamento delle stesse grandezze.

Gli investimenti hanno sicuramente risentito dell’effetto positivo che la nuova metodologia tariffaria (ARERA) ha prodotto. Gli investimenti annui sono cresciuti passando da 1 miliardo del 2007 ad 1,4 miliardi del 2016 con un incremento del 37%. Anche gli investimenti annui per abitante sono aumentati passando dai 41,4 euro del 2006 ai 50,4 euro del 2016, con un incremento del 22%. Questi valori e il loro andamento nel tempo ci descrivono una crescita degli investimenti che appare legata proprio all’introduzione della nuova metodologia tariffaria. Tuttavia nel confronto internazionale emerge che i 50 euro annui per abitante dell’Italia sono poco più della metà di quelli dell’Inghilterra e del Galles (98 euro) e poco meno della metà di quelli della Francia e dell’Olanda (109 euro), un livello di investimento ancora molto lontano dagli standard dei paesi industrializzati.

L’aumento degli investimenti realizzati è legato strettamente alla crescita delle tariffe che si è realizzata in questo arco di tempo. Non disponendo dei dati relativi alle tariffe ma di quello dei ricavi, abbiamo una valutazione approssimata ma comunque abbastanza verosimile di quello che potrebbe essere stato l’incremento tariffario del periodo. A tale proposito, abbiamo visto come i ricavi per abitante sono passati dai 118 euro del 2007 ai 167 del 2016, realizzando un incremento del 42%, in linea con l’aumento degli investimenti.

I costi operativi per abitante sono passati dai 108 euro del 2007 ai 123 del 2016, con un incremento del 13%, in linea con l’andamento negli ultimi dieci anni dei prezzi alla produzione industriale, come riflesso nel deflatore utilizzato dall’ARERA per la rivalutazione degli investimenti. Un incremento più modesto di quello dei ricavi per abitante che tuttavia sembra anch’esso legato all’introduzione della metodologia tariffaria di ARERA. Quello che è più interessante nei costi operativi per abitante è che sembrano diminuire al crescere della dimensione delle imprese. Tuttavia approfondendo ulteriormente è emersa una correlazione significativa anche fra costi unitari e il rapporto fra la popolazione servita e i chilometri di rete. Non è ancora chiaro, quindi, se costo medio diminuisce per la dimensione dell’impresa o per la densità della popolazione rispetto alla rete.

Un altro aspetto che abbiamo indagato è il rendimento del capitale investito. Si tratta di un aspetto centrale della regolazione tariffaria, soprattutto per assicurare che le imprese siano in grado di finanziare gli investimenti necessari. La misura utilizzata è stata il rapporto fra il risultato operativo e le immobilizzazioni. Il rendimento del capitale investito è passata dal 3,7% del 2007 al 9,1% del 2016, registrando così un incremento del 124%. Nel 2016 il rendimento va da un valore minimo del 7,5% delle società pubbliche ad un valore massimo del 13,1% per le imprese miste. Inoltre occorre considerare che questi rendimenti comprendo già valori elevati di accantonamento a fondo svalutazione crediti che sono passati dal 1,2% del 2007 al 3,3% del 2016. Rispetto al rendimento del capitale investito abbiamo confrontato questi valori con quelli che sono previsti dalla regolazione tariffaria. Dal confronto è emerso che i rendimenti del campione di imprese sono più elevati di quelli previsti dalla regolazione anche quando si aggiunga al rendimento formale anche quello relativo al riconoscimento della morosità. Questo maggior rendimento del capitale investito del campione deriva, come abbiamo visto nell’analisi della metodologia tariffaria rispetto alla struttura dei costi di bilancio, probabilmente da costi riconosciuti in tariffa che non trovano corrispondenza nei costi di bilancio e finiscono quindi per aumentare il reddito operativo e quindi il rendimento del capitale investito. Un’altra causa possibile è che il tasso di inflazione riconosciuto dalla metodologia tariffaria AREA è stato per vari anni superiore al tasso di inflazione effettivo e ha così generato dei margini che hanno aumentato la redditività delle gestioni.

L’analisi del Patrimonio Netto e della sua evoluzione ci ha permesso di mettere in luce come si sia fortemente ridotto il numero delle imprese in perdita che sono passate dalle 14 del 2006 alle sole 2 del 2016, e nello stesso tempo di quale dimensione sia stato l’incremento del Patrimonio Netto grazie agli utili portati a riserva. Il Patrimonio Netto è passato dai 2,9 miliardi di euro del 2007 a 5,2 miliardi di euro del 2016, con un incremento di 2,3 miliardi di euro pari all’80%. Di questi 2,3 miliardi, 1,3 miliardi sono gli utili portati a riserva (67%). Se a questi si aggiungono la stima degli utili distribuiti pari a 0,7 miliardi di euro, allora il Patrimonio Netto sarebbe passato da 2,9 miliardi a 5,8 miliardi di euro con un incremento pari al 100%. Questi dati testimoniano che le società in questi dieci anni hanno realizzato una reddittività così elevata da generare risorse pari al 67% del Patrimonio Netto. Gran parte di queste risorse si sono generate a partire dal 2012/2013 con la nuova metodologia tariffaria.

Risultati positivi che si ritrovano poi nell’evoluzione della struttura finanziaria delle imprese del campione. Una struttura finanziaria che migliora in questi dieci anni nonostante la realizzazione di un consistente volume di investimenti. Il grado di copertura dell’attivo fisso con il patrimonio Netto è aumentata da 0,52 del 2006 a 0,58 del 2016 (17%). Anche l’indice di copertura delle immobilizzazioni con il Patrimonio Netto e le passività a medio lungo periodo è migliorato nonostante la realizzazione degli investimenti. Analoga situazione si presenta per l’autonomia finanziaria, ovvero il rapporto fra i debiti finanziari e il Patrimonio Netto che ha visto addirittura una riduzione passando da 1,12 del 2007 a 0,81 del 2016, a testimonianza che l’elevata redditività, realizzata soprattutto dopo il 2012, ha consentito di realizzare investimenti senza incrementare l’indebitamento. Anche gli altri indicatori finanziari, quelli utilizzati dal rating e dal regolatore inglese (OFWAT) presentano andamenti positivi. L’adjusted interst cover ratio passa da 7,4 del 2007 a 14,9 del 2016, quando OFWAT fissa un limite inferiore a 1,6. Il fund from operation to debt, passa da 0,1 del 2007 allo 0,6 del 2016 quando per OFWAT il limite inferiore è di 0,13. Infine il net debt to rab passa da 0,52 del 2007 a 0,41 del 2016 con OFWAT che fissa un limite superiore a 0,65. Tutti e tre gli indicatori migliorano significativamente con l’introduzione della nuova metodologia tariffaria, probabilmente proprio grazie all’aumento di redditività.

Le ultime considerazioni riguardano il peso delle immobilizzazioni sul fatturato, l’andamento degli ammortamenti e della vita utile delle infrastrutture. La realizzazione di un volume ragguardevole di investimenti non ha modificato sostanzialmente il peso delle immobilizzazioni rispetto al fatturato che è passato da 2,03 del 2007 a 2,29 del 2016. La vita utile residua delle infrastrutture è rimasta sostanzialmente la stessa. Il grado di ammortamento delle immobilizzazioni è invece cresciuto passando da 5,6 % del 2007 al 7,7% del 2016, che in presenza di un volume consistente di investimenti costituisce comunque un aspetto positivo.

Quello che sembra emergere è quindi un quadro ampiamente positivo. La nuova metodologia tariffaria ha spinto verso la crescita degli investimenti senza che il settore abbia peggiorato la propria struttura finanziaria proprio grazie agli elevati rendimenti che sono stati capitalizzati e utilizzati quindi in gran parte per autofinanziare i nuovi investimenti. Tutto questo naturalmente a prezzo di un incremento delle tariffe di cui però abbiamo solo un’approssimazione attraverso l’incremento dei ricavi per abitante pari a circa il 4% annuo.

Note

i] Si ringraziano per aver letto e discusso con noi il contenuto di questo testo Claudio Cosentino, Letizia Danesi, Athos Juri Fabbri, Andrea Guerrini, Alessandro Mazzei, Monica Passarelli e Francesca Spinicci. La ricerca è stata realizzata grazie al finanziamento di Confservizi Cispel Toscana che ha consentito l’accesso al data base dei bilanci, dettagliati secondo la IV Direttiva CEE, realizzato da AIDA-Bureau Van Dijk. Il data base utilizzato contiene i bilanci degli ultimi dieci anni (2007-2016) di cinquanta società che gestiscono il solo servizio idrico.

ii] La rappresentazione del sistema tariffario di AEEGSI, che dal primo gennaio 2018 ha assunto la nuova denominazione in Autorità di Regolazione dell’Energia, delle Reti e dell’Ambiente (ARERA), che qui viene utilizzato è quello proposto in un articolo (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016) che confronta la metodologia tariffaria applicata da OFWAT per l’Inghilterra e il Galles con quella applicata in Italia da ARERA, di cui si riporta per comodità la descrizione della metodologia tariffaria di ARERA.

iii] Questo incentivo, proprio della metodologia denominata price cap,  fissa in anticipo i costi operativi riconosciuti in tariffa affinché il gestore, in vista del maggior utile che potrebbe conseguire attraverso un contenimento dei costi, sia incentivato a ridurre tali costi, ovvero la possibilità per la società di gestione di trattenere, nel corso del periodo regolatorio, la differenza fra i costi operativi riconosciuti in tariffa e quelli effettivamente sostenuti Il meccanismo prevede che, fissati i costi iniziali, si riconosca per gli anni successivi un maggior costo per cogliere l’effetto dell’inflazione sui prezzi e quindi sugli stessi costi, a questo si aggiunge un valore in riduzione dei costi riconosciuti in tariffa per trasferire parte dei risultati di tale sforzo al contenimento dei costi agli utenti attraverso una riduzione di tariffa. Tutto questo meccanismo dovrebbe, attraverso periodi di regolazione successivi, portare a riconoscere in tariffa costi più efficienti.

iv] Mentre i costi operativi sono riconosciuti finanziariamente nell’anno di gestione, i costi di investimento sono riconosciuti con uno slittamento di due anni e, per tale ragione, gli oneri finanziari sono maggiorati dell’1%.

v] Semplificando, nell’MTI-2 i costi delle immobilizzazioni sono suddivisi fra ammortamenti, oneri finanziari, oneri fiscali. La lettura della descrizione degli oneri finanziari consente di ritrovare in questa componente la remunerazione dell’equity (immobilizzazioni a cui non si applica lo scudo fiscale) e il capitale di debito (immobilizzazioni a cui si applica lo scudo fiscale) a cui si aggiunge una componente che remunera la rischiosità del settore. Il quadro del WACC si completa poi con l’aggiunta degli oneri fiscali che misurano le imposte calcolate sul risultato ante imposte (calcolato parametricamente) sul rendimento del capitale investito al netto degli investimenti finanziati con contributi a fondo perduto.

vi] Sia gli investimenti realizzati con il FONI ( ) che gli investimenti realizzati con i contributi a fondo perduto, mentre sono portati in detrazione del capitale investito oggetto di remunerazione, alimentano a loro volta la componente , ovvero generano nuovi ammortamenti riconosciuti in tariffa.

vii] I conguagli garantiti dalla regolazione in ciascun anno a riguardano in parte la copertura dei ricavi non conseguiti nell’anno a-2 per volumi previsti e non venduti, in parte la differenza tra i costi passanti sostenuti nell’anno a-2 e quelli riconosciuti nella tariffa del medesimo anno. Pertanto, i conguagli di ogni anno sono di competenza del secondo esercizio antecedente, non di quello in corso. Tuttavia, tali conguagli sono garantiti dalla regolazione in quanto discendono dall’applicazione di algoritmi di calcolo già previsti ed esplicitati nel Metodo tariffario. Molti gestori, pertanto, imputano ogni anno per competenza a conto economico i conguagli che stimano di ricevere dopo due anni, sulla base dei meccanismi di garanzia del metodo tariffario. I conguagli sui volumi coprono l’eventuale differenza di fatturato e quindi non sono diretti alla copertura di costi ma all’integrazione dei ricavi. I conguagli sui costi passanti stanziati per competenza rappresentano una mera integrazione, con manifestazione finanziaria differita, delle componenti tariffarie a copertura dei vari costi e in questo lavoro, per semplicità espositiva, se ne assume la perfetta equivalenza.

viii] Sulla natura economica del FoNI (ricavo versus contributo a fondo perduto) e sul conseguente trattamento contabile per una corretta rappresentazione civilistica in bilancio, si confrontano due orientamenti. Premesso che i flussi di cassa in entrata non variano, poiché il FoNI è comunque una quota indistinta del ricavo tariffario soggetto a imposta nell’esercizio di competenza, la qualificazione del FoNI come ricavo di esercizio determina un corrispondente incremento del margine operativo lordo, ma non conferisce adeguata visibilità al pari decremento del valore degli asset rappresentati nell’attivo dello stato patrimoniale, che dal punto di vista regolatorio hanno un valore residuo minore del valore netto contabile esposto in bilancio, a causa della mancata decurtazione del FoNI. Questa discrepanza viene mitigata dal fatto che il valore di riscatto, che è al netto del FoNI, è soggetto, nella metodologia tariffaria, a rivalutazione monetaria, mentre il valore netto contabile civilistico seppure al lordo del FoNI è valorizzato al costo storico. La contabilizzazione del FoNI tra i contributi a fondo perduto implica la rappresentazione in bilancio di un risconto passivo corrispondente alla quota del FoNI non imputata interamente a ricavo di esercizio, ma rilasciata progressivamente nel corso della vita dell’investimento che ha finanziato, secondo la progressione di ammortamento di quest’ultimo. In questo caso il margine operativo lordo è minore, poiché solo una quota del ricavo è imputato all’esercizio, mentre il valore contabile netto delle immobilizzazioni può essere agevolmente decurtato dell’ammontare del risconto passivo. In questo caso è probabile che il valore di riscatto regolatorio risulti maggiore degli asset al netto del risconto a causa della rivalutazione monetaria (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016, p. 26).

ix] L’  è una copertura finanziaria alle misure di sostegno sociale delle utenze in stato di disagio economico piuttosto che un costo operativo vero e proprio della gestione del servizio idrico. Trattandosi di copertura a mancati ricavi da parte delle utenze deboli, è assimilabile più al concetto di conguaglio che di componente a copertura di un costo.

x] Con lo MTT (AEEGSI, 2012) era possibile che il gestore si vedesse riconosciuto un volume di costi operativi maggiore dei quelli contenuti nei propri bilanci nel caso in cui i costi operativi previsti nel Piano di Ambito fossero maggiori dei costi operativi tratti dai bilanci ( . Le condizioni di tale riconoscimento sono descritte nella matrice definita all’articolo 4 del provvedimento. Nel testo era previsto anche un meccanismo di gradualità che portava verso l’annullamento di questa differenza e che non è stato ripreso nei provvedimenti successivi. Per questi motivi vi possono essere ancora dei gestori a cui sono riconosciuti costi operativi maggiori di quelli originariamente contenuti nei propri bilanci e che determinano una maggior margine operativo lordo.

xi] Secondo le disposizione dei principi contabili pubblicati dall’OIC (Organismo Italiano di Contabilità), riprendendo le norme del codice civile: “L’articolo 2426, numero 8, codice civile dispone che i crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione. Il valore nominale dei crediti è pertanto rettificato per tenere conto di: perdite previste per inesigibilità, rettifiche di fatturazione, sconti ed abbuoni, altre cause di minor realizzo. Il valore nominale dei crediti è rettificato tramite un fondo di svalutazione per tenere conto della possibilità che il debitore non adempia integralmente ai propri impegni contrattuali. Il fondo svalutazione crediti rettifica i crediti iscritti nell’attivo. Lo scopo del fondo svalutazione crediti è quello di fronteggiare le previste perdite sui crediti in bilancio, pertanto il fondo è determinato tramite l’analisi dei singoli crediti e di ogni altro elemento di fatto esistente o previsto”.

xii] Anche OFWAT, nella regolazione tariffaria, con il bad debt adjustment, riconosce un costo della morosità nella forma di un valore preventivo calcolato sui dati degli anni precedenti: “At the 1999 periodic review of water charges (PR 99), the baseline used to project bad debt was the level experienced in the base year 1998/99. At the last periodic review, PR 04, Ofwat provided additional support to companies by moving the baseline for bad debt projections to the 2003/04 level. (OXERA, 2006 (march), p. 3).

xiii] Oppure potrebbe intendersi come copertura di un mancato ricavo (quello dei morosi) e quindi sarebbe assimilabile ad un conguaglio di fatturato.

xiv] Nell’analisi del campione dei bilanci si è potuto verificare che l’incidenza media del capitale circolante netto , sia pure nella definizione di calcolo data dal provvedimento tariffario, è superiore a quella dei fondi di accantonamento  da portare in detrazione.

xv] Il calcolo dei tassi è stato fatto utilizzando le definizioni riportate nel provvedimento e introducendo i valori dei parametri, dove , time lag=1% e = , per un totale di 6,39%.

xvi] “..il FoNI […] non è immediatamente, né facilmente, riconducibile ad una delle due componenti del CAPEX (ammortamenti e rendimento del capitale investito), poiché rappresenta un maggior ricavo riconosciuto al gestore con esplicito vincolo di destinazione delle risorse finanziarie riscosse alla realizzazione di investimenti. Tali investimenti finanziati dal FONI e, dunque, con risorse anticipate dall’utente, sono portati in detrazione del capitale investito oggetto di remunerazione, al pari dei contributi a fondo perduto.” (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016, p. 24).

xvii] “La metodologia dai regolatori per definire il costo del capitale è quella riconducibile al modello CAPM (Capital Asset Pricing Model) / WACC (Weighted Average Cost of Capital). Secondo questo schema, il costo del capitale che il regolatore definisce nella revisione tariffaria dovrebbe riflettere il costo opportunità dei finanziamenti nelle infrastrutture, che rappresenta il miglior rendimento atteso offerto sul mercato per un investimento con la stessa durata e lo stesso profilo di rischio. Il WACC è calcolato come media ponderata de (a) il costo stimato del debito, e (b) il costo stimato del capitale proprio ed è superiore per le imprese che svolgono solo il servizio di acquedotto, che sono di dimensioni inferiori rispetto alle gestioni integrate e possono inoltre accedere, previa istanza valutata dal regolatore, a specifici aggiustamenti del tasso riconosciuto. Questo è il rendimento che gli investitori (azionisti e finanziatori di vario tipo) richiedono per investire nella società.” (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016, p. 19)

xviii] “Semplificando, nell’MTI-2 i costi delle immobilizzazioni sono suddivisi fra ammortamenti, oneri finanziari, oneri fiscali. La lettura della descrizione degli oneri finanziari consente di ritrovare in questa componente la remunerazione dell’equity (immobilizzazioni a cui non si applica lo scudo fiscale) e il capitale di debito (immobilizzazioni a cui si applica lo scudo fiscale) a cui si aggiunge una componente che remunera la rischiosità del settore. Il quadro del WACC si completa poi con l’aggiunta degli oneri fiscali che misurano le imposte calcolate sul risultato ante imposte (calcolato parametricamente) sul rendimento del capitale investito al netto degli investimenti finanziati con contributi a fondo perduto.” (Canitano, Peruzzi, & Todini, 2016, p. 24)

xix] Considerazione. Il valore dell’indice di copertura delle immobilizzazioni con il capitale proprio secondo l’autore (Gallo, 2001) poggia su due circostanze: il rischio e il lungo periodo. Ovvero il rischio proprio della gestione che può presentare anche periodi di difficoltà del patrimonio a produrre il reddito (vendite, concorrenza, costi). Ovvero la caratteristica del patrimonio di produrre reddito ma nel lungo periodo (la durata utile dei beni del patrimonio). Due concetti che se sono veri per un’attività in regime di concorrenza, lo sono un po’ meno per un’attività di monopolio regolata. Infatti, in un contesto di regolazione come quello dei servizi idrici esiste un rischio regolazione che sembra essere diverso dai rischi di un’attività sottoposta alla concorrenza, ma non sembra esserci un rischio di rendimento nel lungo periodo poiché il rendimento del capitale investito è definito dalla regola tariffaria.

xx] Tutto questo sembra necessario anche in un regime regolato, dove viene assicurato un rendimento del capitale prefissato attraverso il sistema tariffario. In realtà si dovrebbe precisare che la scadenza delle passività a medio e lungo periodo dovrebbe essere compatibile con il tempo di rientro degli investimenti (ammortamenti) definito dal sistema tariffario. Infatti qualora la scadenza delle passività a medio e lungo periodo fosse inferiore al tempo di rientro degli investimenti, e se non venissero rinnovate con forme di passività altrettanto a medio e lungo periodo, si determinerebbe una tensione finanziaria che nella migliore delle ipotesi porterebbe a finanziare le immobilizzazioni con il debito a breve.

xxi] Sul tema del rating nel settore dei servizi idrici, con particolare riferimento alla metodologia di Moody’s, è stata recentemente sviluppata una simulazione (Canitano, Peruzzi, & Spinicci, 2014) su un campione di imprese utilizzando i bilanci pubblicati dalle stesse società: “La simulazione, pur trattandosi di una valutazione che presenta un certo grado di approssimazione derivante anche da fatto che non vengono incluse previsioni sui possibili risultati, ha dimostrato che se si trapiantasse, ceteris paribus, l’ambiente di regolazione inglese al contesto delle aziende italiane, oltre il 20% del campione salirebbe dal livello speculative grade al livello investment grade.” (Canitano, Peruzzi, & Spinicci, 2014, p. 350)

xxii] C’è un ventaglio di possibili risposte regolatorie nel definire un sistema tariffario che voglia assicurare la finanziabilità dei gestori. Le principali opzioni sono le seguenti: soluzioni con un valore attuale netto positivo ovvero quelle che affrontano i temi della finanziabilità incrementando le entrate generate dalla tariffa (per esempio attraverso l’incremento del tasso di rendimento sopra il costo del capitale), OFWAT applicò questo approccio nel 2004 ma i regolatori hanno superato questa soluzione affermando che l’utente non dovrebbe pagare di più per risolvere i problemi di finanziabilità; soluzioni con un valore attuale netto neutrale, un’opzione che consiste nel modificare il profilo delle entrate in modo che la società possa generare maggio cash-flow nel breve termine (un modo per assicurare questi maggiori flussi è quello di accelerare l’ammortamento, gli utenti pagano di più nel breve ma questo sarà compensato da minori pagamenti del futuro); Il terzo set di opzioni riguarda la riduzione del livello d’indebitamento (riducendo così i costi degli interessi e migliorando gli indicatori del credito), da raggiungere attraverso un livello di dividendi più basso e /o un’iniezione di nuovo capitale azionario (Frontier_Economics, 2013, p. 14-15).

xxiii] Il provvedimento tariffario può contenere gli ammortamenti finanziari (ammortamento dei cespiti entro la durata della concessione di affidamento) e la società può scegliere di continuare a fare gli ammortamenti tecnici (ammortamento coerente con la vita utile tecnica del cespite). Questa diversità di trattamento può condurre in una prima fase ad ammortamenti della società maggiori di quelli del provvedimento con un erosione del margine operativo lordo. Successivamente arriverà un periodo in cui il provvedimento conterrà un volume di ammortamento superiore a quello contenuto nei bilanci della società con l’effetto di aumentare proporzionalmente il margine operativo lordo. La società può decidere invece di adeguare la politica degli ammortamenti a quella contenuta nel provvedimento tariffario e quindi allineare il più possibile i propri ammortamenti con quelli contenuti nel provvedimento.

Riferimenti bibliografici

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